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“La Spia”, vino valtellinese Nelle bottiglie la passione dell’uomo

di Guido Gabaldi
 
01 dicembre 2017 | 18:29

“La Spia”, vino valtellinese Nelle bottiglie la passione dell’uomo

di Guido Gabaldi
01 dicembre 2017 | 18:29
 

Quanto è conosciuta dal grande pubblico la Valtellina, a livello turistico e gastronomico? A parte Bormio e Livigno, tutto il resto non sembrerebbe in cima alle classifiche di gradimento dei vacanzieri invernali.

Meglio il glamour valdostano o altoatesino, o i giacimenti del gusto toscani e piemontesi, se parliamo di enogastronomia. Eppure questo territorio alpino, a due ore di auto dal centro di Milano, merita senz’altro qualche riflessione di tipo enologico, seduti di fronte a un decantatore e con un calice tipo ballon in mano. Quanto è costato produrre un Sassella, un Valtellina superiore, uno Sforzato, un Valgella, in termini di rischio economico e di fatica vera e propria? Sui terrazzamenti o sulle rupi di alta collina, dove di terreno ce n’è poco, e le radici delle piante serpeggiano in orzzontale alla ricerca di nutrimento?

(La Spia, vino valtellinese Nelle bottiglie, la passione dell’uomo)

Qualcuno dirà: è la solita retorica della viticoltura eroica, già sentito tutto, basta così. E invece no, perché poi bisogna incontrare le persone per capire almeno in parte che investimento di lavoro e di denaro ci sia dietro, al di là della retorica. Proprio quello che è capitato a me alla fine di novembre, presso il ristorante milanese del siciliano Filippo La Mantia, membro Euro-Toques, ove ho potuto piacevolmente chiacchierare con Michele Rigamonti, titolare dell’Azienda agricola “La Spia” di Castione Andevenno (So), a pochi chilometri da Sondrio. Il nome della cantina, curioso, si deve al fatto che la collinetta su cui sorge la cantina permetteva di osservare l’orizzonte da una sopraelevazione naturale, e quindi di controllare le vie di accesso alla valle.

«E in effetti è dura, racconta Michele, siamo partiti otto anni fa per portare avanti una tradizione di famiglia, ma l’idea non era quella di campare di quest’attività: nella vita io faccio altro, la cantina è più che altro una bella opportunità per promuovere il territorio. Oggi siamo a ventimila bottiglie all’anno suddivise su quattro vini, ci prepariamo ad esportare, ma non mi aspetto di guadagnare chissà che cosa».

Non scorre il denaro a fiumi, e questo è certo, ma qualche soddisfazione comincia ad arrivare: il Valtellina Superiore Sassella Docg “PG40”, vendemmia 2011, ha ricevuto il premio della Commissione Giornalisti, nell’ambito della 34ª edizione del Grappolo d’oro 2017. E nemmeno manca il gusto per l’innovazione, dato che si prova a vinificare il Nebbiolo valtellinese (o, per meglio dire, il Chiavennasca) in bianco per ottenere un vino da antipasto: è il Terrazze Retiche Bianco Igt, insolitamente corposo e con sentori di frutta bianca.

(La Spia, vino valtellinese Nelle bottiglie, la passione dell’uomo)

«Si fa per passione, insomma - continua Michele - la stessa che mi ha portato a incaricare un artista famoso, come il pittore milanese Luca Pignatelli, di occuparsi delle etichette. È stato lui stesso a dirmi che quando si trova in un’enoteca gli piace comprare un vino in cui l’immagine abbia il suo ruolo. E io condivido: il messaggio che passa dall’etichetta artistica è che ti sei avvicinato a qualcosa di prestigioso, non a un vino anonimo o dozzinale».

E non potrebbe essere anonima una bevanda che debba accompagnare una cucina piena di sentimento e risonanze mediterranee, come quella di Filippo La Mantia, siciliano trapiantato a Milano. Ad esempio, il filetto di manzo servito con patate schiacciate, midollo e radicchio tardivo regge alla grande il confronto con il Valtellina Superiore Docg “ER64”, riserva 2006: viene prodotto con uve della sottozona Inferno, e matura in vasche d’acciaio per 6 mesi, poi in botti di rovere francese per 48 mesi e infine nelle vasche ancora per 36 mesi. Dopo l’affinamento in bottiglia per altri 36 mesi il rosso che ne risulta è affascinante, morbido, arricchito anche da qualche nota delicata di frutti rossi e spezie.

Chiedo quindi a Paolo Beltrama, amministratore unico della Ribel Wine, che commercializza i vini “La Spia”, perché sia stato scelto un riferimento geografico così diverso dalla Valtellina per promuovere il vino tipico di quest’area. «C’è ancora bisogno di sdoganare, per così dire, questo territorio - risponde Beltrama - noi valtellinesi crediamo che i nostri prodotti caratteristici possano essere apprezzati ovunque, com’è dimostrato dal grande successo della bresaola. Siamo perciò partiti con questa campagna promozionale, raggiungendo idealmente una regione che dalle Alpi dista circa 1.600 km, per dimostrare che sappiamo essere inclusivi, per carattere ed impostazione progettuale».

(La Spia, vino valtellinese Nelle bottiglie, la passione dell’uomo)

Sono partiti dai numeri modesti de “La Spia”, ventimila bottiglie all’anno, ma con la consapevolezza di fornire un pezzo della storia vitivinicola italiana racchiuso nel vetro, che il consumatore più attento è ancora disponibile a pagare per quel che vale. In altri termini, come un prodotto in cui la componente umana, e in Valtellina anche la fatica umana, è ancora indispensabile e la robotica quasi assente. A questo proposito, magari è utile tornare a riflettere con un ballon in mano sul paradosso offerto dalla parola “vendemmiatrice”, che identifica sia una macchina agricola sia la zia, la sorella o la bracciante, al lavoro fra gli impianti ad archetto valtellinese: riflettere e domandarsi se sia un’ illusione quella di ritrovare un volto umano tra i riflessi rossastri del vino, come l’etichetta del Sassella 2011 “La Spia” parrebbe indicare, o se invece vi sia ancora spazio per un vino fortemente umanizzato.

Per informazioni: www.laspia.wine

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