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La “bolla” della ristorazione italiana I “grandi” prosperano, gli altri soffrono

Forse ci vorrebbe una nuova collaborazione all’interno del settore della ristorazione. La cucina è ormai globalizzata. Grandi cuochi e cuochi “normali” sono attori compartecipi dello stesso “spettacolo”, attori i primi e attori i secondi, ma spesso questi ultimi sono considerati solo delle comparse, schiacciati da fisco e burocrazia

di Matteo Scibilia
Responsabile scientifico
 
17 giugno 2016 | 10:46

La “bolla” della ristorazione italiana I “grandi” prosperano, gli altri soffrono

Forse ci vorrebbe una nuova collaborazione all’interno del settore della ristorazione. La cucina è ormai globalizzata. Grandi cuochi e cuochi “normali” sono attori compartecipi dello stesso “spettacolo”, attori i primi e attori i secondi, ma spesso questi ultimi sono considerati solo delle comparse, schiacciati da fisco e burocrazia

di Matteo Scibilia
Responsabile scientifico
17 giugno 2016 | 10:46
 

C’è una overdose di cuochi, sempre gli stessi, i soliti noti, in televisione, agli eventi, nuove aperture, libri e sponsorizzazioni varie. I soliti 10-15 in tutta Italia. Certo, sono anche l’avanguardia della nostra Cucina, basti pensare a Massimo Bottura.

Quindi, il nostro Paese è famoso per il cibo, per il vino, per l’olio e almeno per altri 15mila ristoranti degni di tale nome. Michelin, Gambero Rosso, Espresso, Golosario, Touring ed altre guide più o meno regionali ne recensiscono 5-6mila, quello che gli esperti di marketing potrebbero definire la punta della piramide. Poi ci sono altri dati che indicano la base della stessa in altre 100mila attività di pubblico esercizio, pizzerie comprese.

Un numero sicuramente spropositato rispetto al mercato, tant’è che qualcuno proprio in questi giorni fa notare, preoccupato, quanti ristoranti ci siano in Italia: il doppio che in Francia e in Germania. In tanti sperano in una “bolla” del settore.



Io personalmente, sulla carta, faccio ancora parte della Commissione pubblici esercizi del Comune di Vimercate, in Brianza, commissione che quando era in opera rilasciava l’autorizzazione per l’apertura di un pubblico esercizio, in base a parametri stabiliti dalla legge. Si rilasciava o meno la famosa “licenza”, che suddivideva il settore in quattro fasce: la licenza “A” per i ristoranti, la “B” per bar, pub o simili, poi c’erano la “C” e la “D” per attività di caffetteria, locali da ballo e così via. Ma per i più giovani è doveroso ricordare che le autorizzazioni erano in funzione della possibilità o meno che l’attività utilizzasse una cucina per trasformare il cibo: in questo caso interveniva l’Asl per un ulteriore controllo.

Poi è cambiato tutto, le commissioni sono state congelate e in nome di una democratica liberalizzazione le “lenzuolate di Bersani” e le licenze sono scomparse. Oggi ce n’è una sola che serve per tutto il settore della somministrazione, tant’è che spesso faccio ironia sul fatto che Massimo Bottura, 3 Stelle Michelin, appunto, ha la stessa autorizzazione del bar di una piscina. Poi c’era il Rec, il “Registro esercenti il commercio”, che era un piccolo gradino di difficoltà da superare per avviare un’attività, ed infine anche il libretto sanitario, spesso un ulteriore scoglio da superare.

Oggi il nulla. I comuni alla ricerca di contributi economici, cioè gli oneri di urbanizzazione, rilasciano “licenze” a tutti. Di fatto poi il commercio è materia regionale, quindi ogni regione legifera a sua discrezione, facendo riferimento a norme nazionali ed europee, anzi spesso proprio queste ultime sono gli “alibi” degli stessi comuni. Gli assessorati competenti sono soltanto un controllo burocratico delle carte da presentare. Le Scia e il silenzio assenso chiudono questa parte, che sarebbe certamente da analizzare ulteriormente per capire la difficoltà in cui versa la categoria intesa come sovraffollamento di ristoranti.

Naturalmente non è possibile non ricordare che tutto questo ha sconvolto il settore con anche la scomparsa di quella che era una specie di pensione per tutti i commercianti, quando vendevano la propria attività, cioè il famoso “Avviamento”, valore economico della stessa calcolato sulla base di numerosi parametri: fatturato, location, storia del locale... Ma non è solo di questo che voglio parlare.



La Trisa di Endine, Il ristorante Costa di Cinisello Balsamo, la Saletta sempre di Cinisello, Morgante di Sesto San Giovanni, La Barca di Rho, la Sprelunga di Seveso, il Castello a Cermenate, il Via Vai a Ripalta Cremasca, l’Hosteria del Vapore a Carrobbio degli Angeli (Bg), il Collina ad Almenno San Bartolomeo, la Piazzetta a Montevecchia, l’Osteria dello Strecciolo a Robbiate, il Liberty a Milano, Al Tronco a Milano, Masuelli e Rovello 18 sempre a Milano, i 5 Campanili a Busto Arsizio, il Maccallè a Momo, la Cuccagna a Dovera, poi ancora La Piana, il Ritrovo, il Nesis, tutti in Brianza... Si potrebbe continuare con un elenco infinito di luoghi di tutta Italia. È la ristorazione che resiste, spesso nell’anonimato più assoluto.

Nomi di ristoranti, certo, ma anche nomi di famiglie, nomi di cuochi, persone vere che affrontano con mille sacrifici un’attività ancora ricca di passione, un’attività che rappresenta in molti, moltissimi casi la vera ristorazione italiana, una ristorazione che permette alla nostra agricoltura di continuare a produrre, basti pensare all’olio, ai formaggi, al vino. Una ristorazione che spesso non chiede nulla al sistema. Piccole aziende, stritolate da norme burocratiche e un fisco sempre più vorace.

E allora? Il pensiero, almeno il primo, potrebbe essere che i grandi “chef” in qualche maniera vivono di luce riflessa dei tanti ristoratori e cuochi che ho sopra elencato. Se alcune aziende - e scusatemi per l’ardire - oggi possono permettersi di omaggiare con vino, olio o pasta i grandi cuochi è anche perché quei costi sono spalmati sui tanti che, nell’anonimato, consumano e pagano quegli stessi prodotti. E questo è evidente. Un qualsiasi ristoratore, anche se omaggia una grappa al suo cliente più importante, in realtà spalma quel costo anche su chi quella grappa non la beve.

Secondo pensiero: la stampa di settore - ma ormai anche quella nazionale - riempie quarti di pagina descrivendo la nuova apertura, i nuovi piatti, il nuovo libro, magari anche in modalità di pubblicità a pagamento o camuffata da redazionale. I cuochi, più o meno famosi, cambiano location e si destreggiano come se fossero su un’astronave di Star Trek con il teletrasporto: ristorante a Milano, poi a Bergamo, in Costiera, in Sicilia e via discorrendo. Presenza effettiva in cucina? Impossibile verificarla.

Forse ci vorrebbe una nuova collaborazione all’interno del settore della ristorazione. La cucina è ormai globalizzata, un buon risotto alla Milanese si realizza con zafferani greci o persiani, il baccalà è spagnolo o islandese, formaggi stranieri competono tranquillamente con i nostri. Grandi cuochi e cuochi “normali” sono attori compartecipi dello stesso “spettacolo”, attori i primi e attori i secondi, ma spesso questi ultimi sono considerati solo delle comparse.

Ognuno con i suoi talenti. Questa è la vera Ristorazione italiana.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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