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Non esiste un solo spiedo Storia e tradizione del piatto bresciano

La specialità gastronomica dello “spiedo”, o spet, a Brescia designa il piatto “principe” della sua cucina, divenendo un vero oggetto di culto, un piatto che si è modellato a seconda delle zone: Brescia e Val Trompia, la Bassa, il Garda, la Val Sabbia e le zone pedemontane e la Franciacorta

 
26 dicembre 2009 | 14:28

Non esiste un solo spiedo Storia e tradizione del piatto bresciano

La specialità gastronomica dello “spiedo”, o spet, a Brescia designa il piatto “principe” della sua cucina, divenendo un vero oggetto di culto, un piatto che si è modellato a seconda delle zone: Brescia e Val Trompia, la Bassa, il Garda, la Val Sabbia e le zone pedemontane e la Franciacorta

26 dicembre 2009 | 14:28
 

Arrostire le carni direttamente sul fuoco è stata certamente la prima forma di cottura utilizzata dall'uomo dopo che l'ebbe scoperto, il cui uso domestico risale, secondo l'antropologo Richard W. Wrangham, professore ad Harvard, a circa due milioni di anni fa., mentre il primo focolare sinora individuato sembra posteriore di circa cinquecentomila anni.

Mentre gli animali interi e i grossi pezzi di carne venivano cotti in buche e ricoperti interamente dalle braci, o disposti su pietre ollari, tenute costantemente calde dal fuoco, le piccole parti erano infilzate su sottili ma resistenti bastoni, eventualmente avvolte in foglie per mantenerne gli umori, ed esposte direttamente al calore del fuoco mentre venivano costantemente rigirate.

Da questo attrezzo primordiale, per giungere allo spiedo di ferro passa un lunghissimo lasso di tempo, infatti compare solo in epoca Tardo Medievale su quei rari trattati di cucina giunti ai giorni nostri, in cui viene denominato 'spiedo”, attingendo alla parola latina medievale spetus , che a sua volta è di origine longobarda, riagganciandosi all'antico francese espiet e all'inglese spit. In origine questi termini volevano tutti designare un'arma bianca costituita da un'asta di legni resistenti e flessibili insieme, come il tasso o il frassino, della lunghezza di due metri circa, che a una estremità montava un'aguzza punta di metallo generalmente a forma di rombo o di foglia.

Il passaggio da uno strumento di guerra o di caccia ad un attrezzo di cucina è stato abbastanza fluido, poiché si suppone che sia i soldati, sia i cacciatori, se ne siano serviti per arrostire la carne. Nel corso del tempo l'uso militare, venatorio e quello domestico hanno favorito una sempre maggiore differenziazione, giungendo alla loro precisa definizione di forma.

Nelle grandi cucine dei nobili e dei potenti sin dal Medioevo esistevano spiedi di diversa lunghezza e caratura e, come afferma T. Scully nel suo trattato 'L'arte della cucina nel Medioevo” Ed. Piemme, pagg. 106-108: «La scelta da parte del cuoco dello spessore dello spiedo dipendeva, ovviamente, dal peso che ci doveva infilare. Lo spiedo era in genere montato su anelli di un paio di pesanti sostegni di metallo disegnati per reggere lo spiedo ad altezza variabile davanti o direttamente sopra il fuoco».

La specialità gastronomica dello 'spiedo”, o spet, a Brescia designa il piatto 'principe” della sua cucina, divenendo, nel corso dei secoli un vero oggetto di culto. Per capirne l'importanza si deve risalire alla regolamentazione della caccia nelle riserve e territori dei nobili, che vietavano al popolo la cattura di selvatici di grossa taglia, come cervi, daini, caprioli, cinghiali, per citarne solo i maggiori, ma disdegnavano la piccola selvaggina di penna, che poteva essere catturata con reti, coi crudeli archetti e con trappole di vario tipo, tutti mezzi che si potevano fabbricare con poco. Con questo 'bottino” la gente poteva introdurre nella propria alimentazione le esigue proteine di origine animale in grado di variare un regime alimentare quasi sempre a base di farinate, polenta e zuppe varie. Con la diffusione delle armi da fuoco entra in gioco la caccia al capanno, mentre nei luoghi di passo come la val Trompia, la val Sabbia, le colline che si snodano dal lago di Garda a quello d'Iseo, con i paesi di Serle, Botticino, Ome e Gussago, si moltiplicano i roccoli, una vera fonte di cacciagione di penna minuta, oggi severamente vietata, ma che al tempo è servita per designare i luoghi che sarebbero divenuti conosciutissimi per i loro spiedi.

In origine la preparazione di questa specialità prevedeva l'utilizzo di soli uccellini, come chiaramente mostra il quadro di Angelo Inganni 'Ragazza davanti al focolare” 1870, in cui una giovane popolana in costume è raffigurata nell'atto di far girare uno spiedino su cui si trovano infilzati alcuni beccaccini. Per quanto concerne il condimento, ovvero la materia grassa, si può sicuramente affermare che fosse il burro per le zone in cui esistevano pascoli, mentre il lardo o lo strutto erano utilizzati in tutto il resto della provincia.

L'introduzione di quelli che in vernacolo bresciano sono detti, a seconda delle zone, mòmboi, lòmboi, mùmbulì, ecc. appartiene alla seconda fase evolutiva e ad un momento storico economicamente migliore. Ricavati da sottili fette di lonza o coppa di maiale, vengono leggermente salati, arrotolati su sé stessi e inframmezzati agli uccellini dai quali sono separati da una foglia di salvia che rimane il solo e unico aroma. Una delle attenzioni che assicura la buona riuscita di questa specialità è proprio la dimensione di questi cilindretti, che devono avere un peso tra i 60 e gli 80 grammi ed una dimensione che sia la stessa deigli uccellini, in modo da assicurare una cottura uniforme. Molti nell'arrotolarli inseriscono una sottile fettina di lardo nostrano, quello, per intenderci, con la 'vena”, o di pancetta, mentre altri li usano per avvolgerli, conferendo agli stessi maggior morbidezza.

Allo scopo di fornire con maggior dovizia di particolari una spiegazione relativa all'argomento trattato, riporto qui di seguito un'estrapolazione dal libro 'Brescia e la civiltà dello spiedo”, Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori, Brescia, 2002, dove ne ho curato l'aspetto storico e gastronomico.

«Pur essendo fissata in chiare e collaudate regole, ad eccezione di quella relativa ai vari tipi di carne da abbinare agli uccelletti, la preparazione dello spiedo è soggetta a quelle che io definirei vere raffinatezze, a cui i periti in quest'arte attribuiscono la massima importanza, sfumature e variazioni che fanno la differenza. Unendo un po' dell'uno e un po' dell'altro è possibile stilare il cerimoniale di un rito che ancor oggi è in grado di mettere in comunicazione l'uomo moderno con l'inconscio collettivo del cacciatore che in origine tutti siamo stati» (op. cit. pagg. 29-30).
 

Stabilire le giuste regole
Chi si appresta a compiere questo rito deve prima di tutto aver ben chiare le dosi dei vari ingredienti, poiché questo contribuisce già alla sua buona riuscita.

«Per ogni commensale calcolo all'incirca 8 prese (pezzi di carne di diverse qualità), variando le proporzioni a seconda del tipo di spiedo, della disponibilità di uccellini e del gusto personale. L'unica formula fissa rimane quella dell'alternanza di uccellino e mombol, dove i componenti sono equamente suddivisi a metà. Il peso del burro è generalmente di un chilo per 100 prese, e 100 le foglie di salvia, più eventualmente una da inserire in ogni mombol. In quanto al sale, essendo un ingrediente che varia sensibilmente il proprio effetto sia in base alla sua natura, porvenienza e grana di macinazione, non si possono indicare quantità fisse, e tutto sarà affidato alla perizia dello spiedatore» (op. cit. pag. 30).



Territorio che vai, spiedo che trovi
Se vogliamo parlare dello spiedo bresciano 'storico”, va ribadito che, data la sua origine dovuta alla necessità di aggiungere almeno qualche elemento carneo ad una dieta poverissima, gli unici elementi a comporlo erano gli uccelli, il grasso, che poteva essere burro o lardo o, addirittura olio d'oliva, come ancora viene fatto sul Garda, sale e salvia. Ma poiché la cucina è il prodotto del territorio e delle sue potenzialità, e data la vastità e varietà della provincia bresciana, questo piatto si è modellato a seconda delle sue zone: Brescia e Val Trompia, la Bassa, il Garda, la val Sabbia e le zone pedemontane da Serle a Gussago, includenti la Franciacorta.

Dopo aver compiuto un lungo tour partito da Brescia e snodatosi nella provincia, ed aver desinato in svariati ristoranti, si sono potute stilare alcune modalità di preparazione che differenziano questo piatto.

Lo spiedo cittadino e valtrumplino si attestava su un'alternanza di uccelli e mòmboi, separati da una foglia di salvia e irrorati costantemente da burro e grasso del lardo che alcuni mettono a disciogliersi con questo. Oggi, con le leggi che tutelano la selvaggina, i ristoratori hanno modificato questa regola, introducendo altre carni di bassa corte, come costine di maiale, pollo, coniglio, ma anche faraona e capretto.

Stessa sorte è toccata anche al Garda e alla val Sabbia, che utilizzano un ulteriore ingrediente, la patata, accettata sulle mense degli italiani solo a partire dalla seconda metà del '500. Coltivata con successo nelle valli, soprattutto quella di varietà trentina, ben si prestava a colmare le ridotte quantità di selvaggina, divenendo altresì un boccone ambito per la sua capacità di intridersi degli umori e dei profumi di tutto lo spiedo. Restringendoci unicamente al Garda possiamo notare il singolare uso che agli ingredienti canonici aggiunge anche l'anguilla e l'olio proveniente dagli uliveti delle sue sponde.

La fascia pedemontana con i suoi molti roccoli e luoghi di passo, vero teatro della nascita di questo discusso spiedo bresciano, insieme ai territori della Franciacorta, seguono i dettami di quello cittadino e valtrumplino, mentre in Val Camonica questa tradizione è assente, sostituita dall'uso di cuocere gli uccelli in padella con burro e salvia, rispecchiando il costume bergamasco della 'polenta e uccelli”, ma con la variante dell'aggiunta di panna di affioramento delle malghe circostanti.

Nel territorio della Bassa, l'ultimo ad essere raggiunto da questa tradizione, lo spiedo era composto da quaglie, allodole e beccaccini, che copiosi ne attraversavano i cieli in tempo di passata. Anche qui, come in tutto il resto della provincia, si sono adottati criteri che hanno sostituito la selvaggina con altre carni, lasciando qualche spazio alle specie permesse.

Una precisazione a parte merita la querelle su come trattare le interiora dei selvatici: lasciarli integri, o svuotarli? La tradizione più stretta vorrebbe che gli uccelli di taglia minuta non si tocchino, mentre ai rimanenti venga lasciata solo la masöla, detta anche balòta, ovvero lo stomaco, affinché conservino quel loro sentore amarognolo che è una delle caratteristiche più proprie dello spiedo bresciano. A questo proposito va detto che ancora esistono estimatori i quali mettono quest'interiora nel proprio bicchiere di vino rosso per protrarre più a lungo il piacere del gusto.

La grande fortuna che lo spiedo bresciano ha sempre riscosso sia tra i gourmet che tra gli specialisti di questa tecnica di cottura così antica ha sempre generato sfide pubbliche e private. A tale proposito vale ricordare che a Salò da qualche anno si svolge la cosiddetta 'Disfida degli spiedi”, un appuntamento d'autunno che vede cimentarsi in quest'arte numerosi spiedatori che vengono valutati da una scelta giuria per proclamare il migliore. Ognuno di essi si basa su una teoria più o meno ortodossa, introducendo a volte vere e proprie amenità e 'ardimenti gastronomici”: tutto è concesso, purché sia funzionale allo scopo, al punto che verrebbe da citare la famosa massima di Machiavelli: 'il fine giustifica i mezzi”, il che sembra un po' esagerato, ma il clima in cui si svolge questa 'disfida”, l'entusiasmo e la passione infusa dai contendenti, fa sì che non sia stata detta del tutto a sproposito.

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