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Troppe chiusure nella ristorazione Servono coraggio e più formazione

di Vincenzo D’Antonio
 
15 febbraio 2019 | 11:49

Troppe chiusure nella ristorazione Servono coraggio e più formazione

di Vincenzo D’Antonio
15 febbraio 2019 | 11:49
 

Fenomeno da osservare attentamente (e anche mestamente) quello della natalità/mortalità nella ristorazione. È stato fatto notare, dati alla mano, che lo scorso anno ogni giorno si alzavano per la prima volta 37 saracinesche di ristoranti e ogni sera se ne abbassavano per sempre 71.

Un saldo negativo di 34 ristoranti al giorno. Ma attenzione. Un dato altrettanto significativo, letto nel lasso temporale che va dal 2010 al 2018: questa mortalità è vistosamente “infantile” in quanto a fronte di 10 ristoranti che aprono, ben 3 chiudono nei primi 2 anni di vita.

(Troppe chiusure nella ristorazione Servono coraggio e più formazione)

Le cause di questa mortalità? Tante sono le argomentazioni addotte dagli attori di queste cessazioni, volte a giustificare la loro dolorosa decisione, ma ben differenti sono le analisi sulle cause reali. Proviamo a chiarire. Tra le argomentazioni addotte, tutte plausibili, le più frequenti sono: “carico fiscale eccessivo”, “fatture dei fornitori che si accumulano”, “mancanza di esperienza nel settore”, “scadenze difficili da onorare”, “struttura dei costi difficile da tenere sotto controllo”, “tasse in quantità”, “troppa burocrazia”.

Un’obiezione, una sola, prorompe e va detta chiaramente, sebbene non urlata: “scusate, cari ristoratori, ma queste cose non le sapevate già ben prima di cimentarvi nel progetto dell’attività? possibile che non ne foste a conoscenza?”.

Pertanto - lo si ribadisce - quelle sono argomentazioni addotte per giustificare la decisione della cessazione dell’attività. Ma non la causa. Di cause forse ve n’è più di una. Ma proviamo ad individuarne una sola e proviamo a definirla - ci sia perdonato il vezzo - la “madre di tutte le cause”.

Nuovamente ricorriamo ai dati del recente e illuminante Rapporto Fipe sulla ristorazione 2018. Stralciamo il dato allarmante e inquietante sulla produttività: 17 euro per ora lavorata. Quale attività, in qualsiasi settore, potrebbe risultare sana e attrattiva se si considera una così bassa produttività?

Dunque cosa fa emergere questo dato? Nella maggioranza dei casi, il ristoratore si vede come prestatore d’opera, spesso insieme ai suoi familiari, in quella che, per l’appunto, è una micro-impresa a conduzione familiare, con ricavi appena sufficienti per retribuire le prestazioni lavorative. Una forbice ricavi/costi che per consentire il fatidico “> 1” deve limare il denominatore (i costi) e rinunciare per sempre a quella voce che si chiama “utile”.

L’assenza di utile, in passato tutto sommato tollerabile a fronte di retribuzioni consolidate e regolari, è adesso sintomo di malessere immediato. Senza utile non si investe e, senza investire nella formazione delle persone e nell’acquisizione di nuove necessarie competenze, non si sopravvive in un mercato affollato dove a dettare le regole è oramai la domanda e non più l’offerta. Soccombono pertanto quei ristoratori che non si mettono nelle condizioni di saper leggere e interpretare gli scenari mutevoli della società e i loro conseguenti risvolti economici. Soccombono quei ristoratori che si ostinano a non accorgersi dei cambiamenti non da poco nelle abitudini alimentari, soprattutto da parte dei “Millennials” e della “Generazione Z”.

Soccombono quei ristoratori che non si rapportano adeguatamente alle nuove tecnologie e ritengono le relazioni in rete come faccenduola da lasciare ai dilettanti. Soccombono quei ristoratori che non si sentono e non agiscono come imprenditori validi.

Insomma, se è vero - come è vero - che quel valore di 17 euro per ora lavorata è un valore medio, ecco, allora potranno ritenersi per sempre esenti dal rischio della saracinesca abbassata quei ristoratori che sapranno essere ben sopra a quel valore. Come? Necessariamente divaricando la “forbice”. Il fatto intrigante è che, se finalmente ci si dota di strumenti opportuni, incrementare i ricavi e diminuire i costi sono due obiettivi ragionevolmente perseguibili. Il “sommerso” è un rimedio molto pericoloso: non fa guarire e anzi concorre ad aggravare lo stato di salute dell’attività. Si tratta invece di “emergere”. Emergere in tutti i sensi: uscire dalla palude dell’affollamento dove stanno pigiati i mediocri; uscire dal cortile che inibisce la visione del mondo e fa ritenere che il mondo sia quel cortile. Si può.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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