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Giovani cuochi e formazione Ma dov’è la nuova generazione?

Che cosa sta succedendo nel mondo delle scuole e della formazione dei giovani aspiranti cuochi? Da un lato ci sono scuole pubbliche mal gestite, dall'altro istituti privati che chiedono rette da capogiro. Torna il problema della mancanza di fondi per un settore che sta alla base del turismo

02 maggio 2009 | 17:00
Giovani cuochi e formazione Ma dov’è la nuova generazione?
Giovani cuochi e formazione Ma dov’è la nuova generazione?

Giovani cuochi e formazione Ma dov’è la nuova generazione?

Che cosa sta succedendo nel mondo delle scuole e della formazione dei giovani aspiranti cuochi? Da un lato ci sono scuole pubbliche mal gestite, dall'altro istituti privati che chiedono rette da capogiro. Torna il problema della mancanza di fondi per un settore che sta alla base del turismo

02 maggio 2009 | 17:00
 

 Da qualche mese collaboro in qualità di specialista in tecniche di ristorazione con uno dei più prestigiosi Istituti di Milano, il Capac, scuola di commercio e di cucina. E comincio a capire dove sono i problemi. Sempre più spesso giovani cuochi bussano alle porte dei ristoranti, presentando curricula molto lunghi, evidenziando che in pochi anni hanno lasciato e cambiato ogni 6 mesi il posto di lavoro. Dinanzi alla richiesta del motivo di un numero così alto di cambiamenti la risposta più frequente è il desiderio di fare molte esperienze. Qualcuno più ingenuo si lascia andare a giudizi sull'incapacità dei titolari a seguirli o capirli. Umiltà e fedeltà sono parole sconosciute per molti cuochi, che dopo essere assunti, e magari aver fatto fare investimenti considerevoli all'azienda, lasciano il ristorante per un altro che magari gli ha promesso uno stipendio migliore, o anche dinanzi alla chimera di una notorietà veloce, spesso costringendo giornalisti e curatori di guide a slalom incredibili per tenere aggiornate le stesse.

In entrambi i casi, purtroppo, nessuno capisce che la fedeltà e la capacità di imparare sono direttamente proporzionali alla credibilità professionale. Mi viene in mente quel grande chef a mio giudizio campione di umiltà e di professionalità, Sergio Mei, che da oltre 15 anni dirige le cucine del Four Seasons. Innanzi tutto sarebbe il caso di distinguere tra il cuoco dipendente e il cuoco patron, cioè imprenditore: una bella differenza tra chi la mattina comincia la giornata dovendo badare solo alla cucina e chi deve occuparsi dell'insieme dell'azienda. Bisogna ricominciare a premiare la manualità e l'artigianalità del nostro lavoro. Ci mancherebbe che un cuoco dovendo badare solo alla cucina non fosse bravo: fa solo quello.

Ma tornando alle scuole e alla formazione, cosa sta avvenendo? Da un lato gli istituti privati con rette di decine di migliaia di euro formano nuove generazioni di cuochi che per l'alto livello di insegnamento ricevuto difficilmente andranno a lavorare in ristoranti tradizionali. Dall'altro lato abbiamo le scuole pubbliche mal gestite. Qui c'è il problema che la mancanza di fondi non permette alle scuole di essere al passo con gli sviluppi delle tecniche di cucina. Situazioni paradossali e programmi di studio ministeriali non permettono agli studenti esperienze professionali, tant'è che negli ultimi anni di studio non fanno pratica, aggiungendo a questo problemi sindacali, che nel nostro Paese non sbloccano la possibilità degli stages, che spesso sono fatti al limite delle leggi, ma che in realtà sono l'unica possibilità per imparare il mestiere. E non si capisce come neanche la Fipe riesca ad intervenire su questo problema, il che sarebbe anche un grande aiuto per la scuola pubblica.

Mi risulta però che Lucio Pompili nelle Marche stia facendo qualcosa di positivo, avendo creato un consorzio di ristoratori che al primo posto del loro sodalizio hanno inserito proprio il rapporto con gli enti locali e la formazione. Ci sono, è vero, gli enti bilaterali che potrebbero affrontare la questione, ma sono gestiti al 50% dai sindacati e di fatto i problemi visti con l'occhio ideologico non vengono affrontati con il giusto approccio.
Le piccole aziende del nostro settore non possono più sopportare la situazione. Quando faccio presente che la nostra realtà occupazionale è unica al mondo, molti mi guardano stupiti: 14 mensilità, il Tfr che è un'altra mensilità, 40 giorni tra ferie e festività varie, più i permessi sindacali retribuiti oltre 100 ore l'anno. Dove, nel mondo, c'è una situazione simile all'Italia? Neanche in Francia.

L'applicazione di leggi spesso create per l'industria alimentare e applicate anche ai piccoli bar, pizzerie e ristoranti non aiutano lo sviluppo del settore. Bisognerebbe ricordare al sottosegretario Michela Brambilla che il turismo è soprattutto cibo e vino, cioè Ristorazione.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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