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Cronache da ghetto Smart working e faccende di casa

Avete presente quando siete invitati al pranzo di Natale con tutti i parenti e avete quell'emozione che però è anche un po' non veder l'ora di tornarsene a casa? Ecco, a noi la quarantena sembra anche così.

di Federico Biffignandi
 
12 marzo 2020 | 19:30

Cronache da ghetto Smart working e faccende di casa

Avete presente quando siete invitati al pranzo di Natale con tutti i parenti e avete quell'emozione che però è anche un po' non veder l'ora di tornarsene a casa? Ecco, a noi la quarantena sembra anche così.

di Federico Biffignandi
12 marzo 2020 | 19:30
 

Primo giorno di chiusura totale di tutto, ma è già il quinto di quarantena forzata e gli animi in casa iniziano a scaldarsi. Cinque persone come siamo in famiglia, a stretto contatto tutto il giorno, sa di esperimento sociologico tipo Grande Fratello, peccato solo che il Governo non abbia previsto nomination ed eliminazioni ma che, anzi, ci obblighi a restare in casa e che restare in casa non è un passo avanti verso la vittoria, ma un passo indietro verso inevitabili discussioni.

Cronache da ghetto Smart working? Papà non capisce

Oggi, proprio oggi, il problema più grande si chiama smart working. In casa l’unico lavoratore sono io perché mamma fa la casalinga, papà è in pensione, una sorella sta finendo il liceo e un fratello sta laureandosi in medicina. Bello lavorare da casa, le comodità, il capo che non sta con il fiato sul collo, un po’ di libertà in più, ma non è oro tutto quel che luccica.
Chi lo spiega a mamma e papà che stanno ancora cercando di capire le logiche di uno smartphone che lavorare da casa non è essere a casa, attaccati al computer a perdere tempo? Bella domanda, senza risposta. Perché io davvero stamattina ho provato a spiegarglielo, ma senza ottenere risposta. O meglio: ho ricevuto uno sbuffo e un’occhiata strana come a dire “sarà come dici tu, ma non ci credo e tra un’ora sono qui di nuovo a romperti”.

Sì perché essere a casa a lavorare significa dover mettere la testa sul lavoro tanto quanto lo si fa abitualmente almeno per 8 ore o giù di lì, anzi di più perché magari le strumentazioni a disposizione non sono le stesse. Ma, in sottofondo, più temibile del brontolio del capo, c’è il vociferare di mamma, papà e fratelli che contestano il vociferare di mamma e papà. Stamattina mio padre mi ha chiesto se lo aiutavo a fissare una mensola in bagno: e va bene, per cinque minuti di stacco si può fare, l’ho presa come pausa-caffè al lavoro. Ma appena finito, mi ha anche chiesto di scendere in giardino a fare un po’ di ordine. “Io, in realtà starei lavorando” gli ho risposto. Sbuffo e un’occhiata strana come a dire “sarà come dici tu, ma non ci credo e tra un’ora sono qui di nuovo”.

Non è tornato dopo un’ora, ma ci ha pensato mia madre dopo venti minuti a bussare alla porta della camera trasformata in redazione per chiedermi se potessi sistemare l’armadio, magari tirando fuori le cose di primavera e mettendo via quelle dell’inverno. “Io, in realtà starei lavorando”, le ho risposto. Sbuffo e un’occhiata strana come a dire “sarà come dici tu, ma non ci credo e tra un’ora sono qui di nuovo”. E, dopo una calma apparente, è ritornata nel pomeriggio in camera urlando con mio padre per non so bene quale motivo. Peccato che io fossi al telefono per intervistare un Megadirettore Galattico di fantozziana memoria che, con ogni probabilità, ha sentito tutto. Io ho fatto cenno a loro di andarsene o quanto meno abbassare la voce ma… Sbuffo e un’occhiata strana come a dire “sarà come dici tu, ma non ci credo e tra un’ora sono qui di nuovo”.

Ed è tornata mia madre infatti, ma per fortuna all’ora di cena per annunciarmi che il piatto era in tavola. Sospiro di sollievo. La giornata, almeno quella di lavoro, se ne è andata. Ora ci sarà da lottarsi il telecomando per il dopo cena, ma il peggio per oggi è passato. Mancano 22 giorni, probabilmente non ce la faremo, o forse uno sbuffo e un’occhiata strana ci salveranno.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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