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L'ultimo giorno di normalità

Tra l'8 e il 9 marzo 2020 il mondo cambiò. La sera del 9 marzo l'Italia divenne il primo Paese dopo la Cina a chiudere e noi ci ritrovammo soli e scaraventati in una dimensione ignota. Senza accorgerci fu il giorno delle ultime volte, un giorno che oggi ci insegna a vivere ogni momento al meglio. Come fosse l'ultimo

di Federico Biffignandi
08 marzo 2021 | 19:05
L'ultimo giorno di normalità
L'ultimo giorno di normalità

L'ultimo giorno di normalità

Tra l'8 e il 9 marzo 2020 il mondo cambiò. La sera del 9 marzo l'Italia divenne il primo Paese dopo la Cina a chiudere e noi ci ritrovammo soli e scaraventati in una dimensione ignota. Senza accorgerci fu il giorno delle ultime volte, un giorno che oggi ci insegna a vivere ogni momento al meglio. Come fosse l'ultimo

di Federico Biffignandi
08 marzo 2021 | 19:05
 

Sembra storia e invece è solo un anno fa. Sembra passata e invece ci siamo ancora nel bel mezzo. Sembra di parlare dei nostri nonni e invece siamo proprio noi ad averlo vissuto. Sembra tante cose quell’ultimo giorno di normalità, quell’8 marzo 2020 - era di domenica - prima della serata in cui l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte con la prima di una lunga serie di conferenze stampa annunciava che tutta Italia diventava “zona protetta” a causa del coronavirus che di simpatico ed innocuo aveva solo il nome ed invece era una pandemia. Era il 9 marzo, era di lunedì. In quel momento l’Italia era il primo Paese a prendere una decisione così rigida dopo la Cina, da dove tutto ebbe inizio.

Tra l'8 e il 9 marzo tutto cambiò - L'ultimo giorno di normalità

L'avvicinamento al lockdown
Già dal 23 febbraio erano arrivate le prime avvisaglie con 14 comuni, Vo’ Euganeo (Pd) più altri 13 della Lombardia, che erano stati messi in zona rossa. Poi il 4 marzo la chiusura delle scuole, via-via altre attività commerciali avevano abbassato volontariamente (o su disposizione) le serrande. L’8 marzo non era già più un giorno di vera normalità perché anche gli dei del calcio, quelli della serie A, iniziarono a tornare al loro posto diventando come gli altri con una delle partite più sentite, Juventus-Inter, che andò in scena la domenica sera a porte chiuse.

Fino al 9 marzo, ore 21, quando Giuseppe Conte annunciò che «bisognava cambiare le nostre abitudini». Mancava solo l’ufficialità, ma già nel corso della mattinata di quel giorno le nostre vite stavano cambiando. Dalla sera alla mattina perché è vero che già da una decina di giorni stavamo assistendo ad un dramma in diretta, ma le parole di Conte ci inchiodarono e ci misero di fronte alla realtà dei fatti.

Sembrava un piccolo sforzo, è diventata una tragedia
Anzi, furono fin troppo positive visto che in prima battuta il decreto che venne ribattezzato #iorestoacasa doveva restare in vigore fino al 3 aprile. Ci volle un altro mese di supplemento per “tornare a riveder le stelle” anche se quel cielo di maggio di stelle ne aveva fin troppe: oltre 29mila, tanti erano i morti registrati in Italia fino a quel giorno, il 4 maggio, quello del primo sblocco.

Ma dall’8-9 marzo in poi tutto cambiò. Da un momento all’altro. Il fuggi-fuggi degli emigrati al nord verso le proprie città natali aveva lo stesso fervore del viaggio fatto per arrivare nel ricco settentrione, ma a questo punto era il Sud il luogo sicuro, quello era un viaggio della speranza al contrario, tutto quel giorno girava in modo diverso rispetto ai nostri schemi. Fuggivano dagli uffici anche i lavoratori che ancora continuavano ad andare in azienda; la loro fuga divenne isterica, frettolosa, incosciente, distratta, sdrammatizzata da un mezzo sorriso che nascondeva qualcosa di piacevole: “Perché no, qualche giorno a casa o di smart working non è poi male”. Ma quella che sembrava una parentesi, un passaggio, uno sbuffo, uno schiaffetto divenne una frase completa, un treno che passa ed investe, un pugno nello stomaco, un viso rigato di preoccupazione e lacrime, disorientamento e solitudine, gabbia e depressione.

Dalla realtà al virtuale
Da un momento all’altro le strade intasate dalla nostra sciocca frenesia quotidiana si svuotarono, i fumi dello smog si dispersero, i canti degli uccelli rubarono la scena agli strombazzamenti dei clacson, le urla e le risate vennero incenerite dal rimbombo costante delle ambulanze. In un attimo fummo costretti a fare i conti con la carne dei nostri amici, parenti, colleghi che divenne schermo, virtuale, impalpabile. Smartphone e computer, ipad e televisioni si trasformarono da quel momento più che mai nella nostra vita quotidiana. Deserto attorno. Deserto dentro. Abbracci virtuali. Domande. Telefoni che squillano. Risposte che non arrivano. Notizie che brulicano. Media che divorano e annunciano, sparlano e sbagliano. Virologi che diventano vip. Vip che diventano virologi. Caos.

Studenti in Dad, lavoratori in smart-working
Gli studenti relegati in camera a seguire le lezioni, i lavoratori nell’altra ad arrangiarsi con uno smart working ancora troppo lontano dalla nostra cultura per poter essere maneggiato con cura e spigliatezza. In un attimo i colori fuori dalle finestre assunsero tonalità più sature, le forme della natura più delineate. In un attimo i supermercati si svuotarono di lievito e farina, sale, olio, zucchero. La rivolta del pane di manzoniana memoria venne riportata alla ribalta immediatamente insieme alla peste e agli appestati: in un attimo tornammo antichi. Certo, la tecnologia, ma fu la nostra testa, la nostra mentalità a fare un balzo all’indietro di un secolo.

In un attimo riuscimmo a renderci conto di essere uomini fragili messi in crisi da qualcosa di invisibile, ma nello stesso attimo emerse in noi la consapevolezza che, in quanto esseri umani, la nostra peculiarità è proprio quella di saperci adattare e far prevalere lo spirito di sopravvivenza sopra a tutto.

In un attimo alzammo gli occhi al cielo per chiedere aiuto, tutti - credenti o non credenti - nonostante in un attimo anche la Chiesa annunciò che le funzioni erano sospese. Pure le Messe divennero online, in streaming, impalpabili ma in quell’attimo, in quel primo giorno di non-normalità comprendemmo anche che qualcosa di invisibile si può combattere solo affidandosi a qualcosa di superiore qualcosa di superiore. L’impotenza umana ci pervase.

Il giorno delle ultime volte
L’ultimo giorno di normalità, quel periodo sospeso a cavallo tra l’8 e il 9 marzo fu pieno di ultime volte. L’ultimo giorno in ufficio, l'ultimo pranzo al ristorante, l’ultimo abbraccio alla nonna, l’ultimo saluto al fidanzato o fidanzata, l’ultima uscita senza mascherina, l’ultima volta che si prendeva la macchina, l’ultima spesa, l’ultimo respiro, l’ultimo giorno in cui certe parole (lockdown, zona rossa, quarantena) erano solo parte di film, leggende, racconti di storia. Eppure non ce ne rendevamo conto, pensavamo ad una cosa passeggera.

Cosa ci ha lasciato l'ultimo giorno di normalità
Quell’ultimo giorno che non pensavamo potesse essere l’ultimo giorno però ci ha lasciato qualcosa: vivere sempre come se fosse l’ultimo giorno, assaporare tutto come se fosse l’ultima volta, vivere ogni incontro come se dovesse essere il più bello, quello in cui dare e dire tutto. Oggi, che ogni giorno può essere l’ultimo giorno con un’altalena di chiusure e aperture che facciamo fatica a digerire, abbiamo un po’ imparato a fare tutto come se fosse l’ultima chance, a sfruttare ogni attimo di libertà al meglio.

Da quell’ultimo giorno di normalità in poi tutto è cambiato e mai niente sarà come prima. Sì le cure, sì la speranza che prima o poi il virus svanisca, ma quello che nelle nostre teste si è radicato non si estirperà e, anzi, proseguirà per generazioni e generazioni perché chi è nato tra quell’ultimo giorno di normalità e oggi, vivrà la propria vita con le limitazioni della pandemia assimilate come normali. Era di domenica, l'ultimo giorno di normalità.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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