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Dal conto al... racconto, un nuovo modo per congedare l'ospite al ristorante

Dopo l'atmosfera della cena al ristorante, il conto è il momento meno elegante. Tuttavia, è possibile trasformarlo, rendendolo racconto delle portate e dei vini, occasione per il cliente di esprimere i suoi suggerimenti. Allo stesso modo il ristoratore può fornire al cliente proposte a tavola su misura

di Vincenzo D’Antonio
15 gennaio 2017 | 10:09
Dal conto al... racconto, un nuovo modo 
per congedare l'ospite al ristorante
Dal conto al... racconto, un nuovo modo 
per congedare l'ospite al ristorante

Dal conto al... racconto, un nuovo modo per congedare l'ospite al ristorante

Dopo l'atmosfera della cena al ristorante, il conto è il momento meno elegante. Tuttavia, è possibile trasformarlo, rendendolo racconto delle portate e dei vini, occasione per il cliente di esprimere i suoi suggerimenti. Allo stesso modo il ristoratore può fornire al cliente proposte a tavola su misura

di Vincenzo D’Antonio
15 gennaio 2017 | 10:09
 

Il flow naturale e rituale dell’esperienza al ristorante: la prenotazione, l’arrivo, l’accoglienza, le proposte (menu e carta dei vini) e le sottese scelte (le comande). Lo svolgimento in sé, auspicabilmente molto delizioso, molto gradito, memorabile. E l’esperienza che si conclude con la richiesta del conto. Il conto arriva. Lo si salda. Ci si accomiata.

Ecco, fosse un film, rivedremmo volentieri in slow motion il momento intenso dell’esperienza: la successione delle pietanze, il riempirsi e lo svuotarsi dei calici, il piacevole conversare, l’amena convivialità. E poi andremmo in high speed al momento, supposto forzoso e dannatamente inelegante, di contante che scivola via o di carte di credito in percorso di andata ritorno con firma veloce oppure con Pin da digitare.

Il conto, possibile punto di partenza per una relazione two ways con l'ospite

Ed invece, per quanto attiene i fotogrammi del “conto”, così non dovrebbe essere. Anche qui vorremmo fruire della slow motion perché anche qui si vivono momenti di deliziosa esperienza. Sta accadendo che il conto virtuosamente si commuta in racconto. Racconto che appena incidentalmente l’attimo necessario della transazione include.

Riflettiamo insieme. Quando il cliente chiede il conto? Quando, evidentemente, ritiene compiuta la sua esperienza, e dai momenti gioiosi si deve passare a quello obbligato di un pagamento da onorare a fronte di servizio fruito. È così. Ma l’erogatore del servizio, il ristoratore può mica banalizzare il suo prodigarsi con le sue persone di sala e di cucina facendo il tutto diventare un asettico importo, un dare-avere contabile?

Si tratta, invece, di sapere e voler fare ben altro. Si tratta di raccontare. Anche ciò è storytelling. Al tavolo, insieme a quella strisciolina di carta che reca l’informazione circa l’importo da pagare, giunge il racconto dell’esperienza appena vissuta: testi e foto. Per ogni piatto, il nome corretto, gli ingredienti principali ed i produttori. Per ogni vino, il nome corretto, la vendemmia, la cantina di provenienza.

A fronte di un consenso ricevuto, questo racconto oltre che assumere la graziosa sembianza cartacea all’istante, di sé facendo bella mostra sul tavolo, può anche essere inviato via email ai commensali, in tale caso sollecitando commenti, giudizi, suggerimenti. Il racconto serve anche a sollecitare, tendenza in atto, il tentativo di replica bonaria del piatto in contesto domestico. Approvvigionamento degli ingredienti reso possibile all’istante oppure in modalità differita: sorta di kit pronto all’uso. Anche le bottiglie di vino, disponibili per take away.

Il conto, possibile punto di partenza per una relazione two ways con l'ospite

Quel take away che si contestualizza nel fenomeno emergente del Dine in as Dine out. Ovviamente, tale “racconto del conto” entra ed alimenta il bigdata del ristoratore. E ne consegue cosa? La volta successiva che il cliente ci onora della sua visita, sappiamo noi ricordargli cosa ha gradito la volta precedente e come adesso, conseguentemente, ci si sente di consigliargli questo piatto, questo vino in abbinamento, questa successione di portate, e via così. Abbiamo memoria di preferenze ed anche di eventuali allergie.

Ancora, avendo noi il “racconto del conto”, possiamo noi contattare il cliente allorquando tra qualche sera avremo nuovamente in carta quella pietanza che lui tanto gradì e ci si permette così di suggerirgli prenotazione e presenza. Insomma, la comunicazione one way, con appresso quel suo odore fastidioso di pubblicità desueta, svanisce a vantaggio della relazione two ways: ascoltare per poter poi essere ascoltato quando arriva il momento propizio di parlare, ovvero di proporre.

Ed il saper parlare ed il saper proporre comporta aver saputo ascoltare... Proposte mirate, ogni volta più mirate in quanto passo dopo passo si perfeziona il profilo del prezioso cliente. È fantasioso? È bello a dirsi ma inattuabile, ovvero difficoltoso a farsi? È semplice a farsi, posta l’esistenza dei prerequisiti: il crederci fortemente (controproducente il far finta di crederci), l’attrezzarsi di conseguenza sia con l’appropriata formazione del personale sia, strategicamente, con l’utilizzo sapiente del dashboard.

E se si continua, a domanda del cliente il più delle volte effettuata con ausilio mimico di pollice ed indice velocemente sfregati l’uno contro l’altro, ad arrivare con la strisciolina di carta e poi in veloce andirivieni portare il resto cash o la carta? Niente paura, va bene uguale. Va bene uguale, beninteso, se l’obiettivo è sopravvivere. Ma nel secondo decennio del ventunesimo secolo, può la sopravvivenza costituire un obiettivo, conseguito il quale ci si accontenta?

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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