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Massimo D’Innocenti Cuoco d’altri tempi

Massimo D’Innocenti, cuoco di Casina Valadier a Villa Borghese, non si è fatto travolgere dalle mode, ma ha puntato sulla semplicità nella preparazione e sulle ricette della tradizione romana.

di Jerry Bortolan
 
20 ottobre 2020 | 13:05

Massimo D’Innocenti Cuoco d’altri tempi

Massimo D’Innocenti, cuoco di Casina Valadier a Villa Borghese, non si è fatto travolgere dalle mode, ma ha puntato sulla semplicità nella preparazione e sulle ricette della tradizione romana.

di Jerry Bortolan
20 ottobre 2020 | 13:05
 

Grazie alla sua straordinaria posizione sul colle più alto di Roma, all’interno del Parco di Villa Borghese, la Casina Valadier con la sua elegante e raffinata architettura è una location unica al mondo per un ristorante. Da qui, re, principesse, vagabondi di ogni latitudine e celebrità del mondo si sono affacciati sulle sue terrazze da dove si può fare lo struscio del “rimorchio” senza sgomitare tra la gente e si può godere un affascinante spettacolo che si racconta da sé, una volta seduti ai suoi tavoli. Da qui si vede e si sente il “cicaleccio” che emana la Città Eterna, incastonata nello skyline delle sue cupole e terrazze della Roma antica.

Massimo D’Innocenzi - Massimo D’Innocenzi Cuoco d’altri tempi

Massimo D’Innocenti

Questa storica e splendida villa sta anche assistendo all’evoluzione della sua ristorazione che, finalmente, con la nuova gestione, in 4 anni, dal 2016 ad oggi, ha saputo riproporre un perfetto e piacevole punto d’incontro mondano internazionale, insieme a un gustoso e comprensibile percorso gastronomico con piatti della nostra tradizione, rendendo felice la clientela straniera e mettendo d’accordo la difficile piazza romana, sempre insoddisfatta e critica.

Il sasso nello stagno per cambiare e rivitalizzare la sua ristorazione lo ha lanciato un cuoco ultraquarantenne romano, un tosto e positivo chef come Massimo D’Innocenti. Ci è riuscito senza farsi “travolgere” da mode e correnti innovative, ma mettendo a frutto le sue solide basi di conoscenza degli alimenti e delle cotture perfette e passando molte ore in cucina con la sua squadra per sperimentare nuovi piatti. Perché come ripeteva sempre ai suoi allievi il grande Paul Bocuse: «chi vuole diventare chef deve essere pronto a versare lacrime e a fare pesanti sacrifici e sapere che in cucina non c’è democrazia».

Quando ho raggiunto Massimo D’Innocenti per un caffè sulla terrazza della Casina Valadier era un ventoso e piovigginoso pomeriggio autunnale, ma con colpi di luce che illuminavano alcuni tratti di Roma (bellissima). Lui era ancora in divisa, vestito da “cuoco” perché che doveva tornare subito in cucina per preparare un menu speciale per un evento serale. Allora, entro nel vivo chiedendogli di come è riuscito a vincere questo challenger gastronomico soddisfacendo tutti – romani, stranieri e la proprietà - e di raccontare un po’ della sua vita passata fra fuochi e pentole di varie cucine.

La terrazza di Casina Valadier con un affaccio unico - Massimo D’Innocenzi Cuoco d’altri tempi
La terrazza di Casina Valadier con un affaccio unico

«Fino a vent’anni non avevo mai pensato di diventare cuoco. Poi, ho partecipato a un corso regionale nel quale c’erano insegnanti incredibili come Roberto Ciarla e Laura Ravaioli che mi hanno fatto appassionare a questa professione. Ho cominciato con determinazione perché mi sentivo in ritardo e ho cercato di recuperare il più possibile lavorando, impegnandomi notte e giorno.

Dove ti sei misurato per la prima volta?
Ho iniziato al Portico d’Ottavia e lì ho conosciuto la cucina ebraico-romanesca. Avevamo due friggitrici a due temperature diverse: una per i carciofi alla giudea con una temperatura più bassa per la prima frittura, a circa 140 grandi, e poi l’altra a 175-180 gradi per le finiture. Mi piaceva ma poi mi è venuta la congiuntivite: stavo davanti alle due friggitrici, una da 80 e una da 50 litri. Ho fatto fritti per mesi perché la maggior parte della cucina ebraico-romanesca è basata sul fritto. Perciò, animelle, schienali, carciofi, ricotta, tutta la cucina al “quinto quarto”. La doppia frittura è il trucco per i carciofi alla giudea.

Hai cominciato subito davanti alle padelle?
Naturalmente, facevo anche tutto il resto del lavoro come pulire le verdure. Dopo sono andato da Alberto Ciarla, a Piazza San Cosimato, un ristorante al quale sono rimasto molto legato. C’era un’impronta francese (la moglie era francese), soprattutto nelle salse. È stato il primo ristorante a Roma a fare i crudi: aveva due cuochi giapponesi e sono stato fortunato perché con loro ho imparato veramente l’arte di sfilettare, pulire il pesce, spinare, il crudo, il sashimi. Era il ’91-’92 e per me è stata un’esperienza speciale.

Insomma, sei passato dalle friggitrici alla cucina più sostanziale, quella che piace. Come è stato il passaggio?
Quando sono entrato nelle grandi cucine, quelle più strutturate, ho capito che questo è un vero mestiere, che arrivare a fare lo chef in una grande brigata è una cosa per pochi, è un mestiere di responsabilità e non ci sono scorciatoie. Non è una cosa da fare per moda. Se non hai fatto il giusto percorso gli esperti lo capiscono, se non conosci la materia prima, se credi di essere diventato chef dopo quattro mesi di corso hai un’idea proprio sbagliata del mestiere.

Nel frattempo la cucina avanzava, si diffondeva, dilagava con i grandi chef, con l’innovazione e i sifoni di Ferran Adrià ma tu sei rimasto con i piedi per terra. Non ti sei sentito frustrato e hai proseguito per la tua strada, secondo quella che è la nostra tradizione. Ma non ha mai cercato di seguire le nuove tendenze?
No, ho sperimentato le varie tecniche per capire anche come andavano fatte ma ho cercato di usarle il meno possibile. Le ho usate solo quando le ritenevo coerenti con il piatto, se potevano dare una marcia in più al risultato finale. Ma in ogni piatto io parto sempre dal gusto e poi lavoro sulla presentazione, sui colori, sull’estetica.

Qual è il piatto che ti ha dato più soddisfazione?
Ci sono piatti che ti fanno ammattire e ci sono piatti, magari difficili, che riescono bene al primo colpo, come per esempio un involtino di rombo avvolto con il pane di Genzano.

C’è stato mai qualcuno che ha contestato questa tua “semplicità”?
Forse sì ma io credo abbastanza in me stesso e non mi sono mai fatto condizionare da critiche negative anche se sono attento alle opinioni e ai pareri dei clienti.

Poi come hai poi continuato?
L’esperienza più importante che ho fatto è stata al Caffè Veneto, un ristorante che lavorava soprattutto carne. Per me è stata fondamentale la collaborazione con il direttore Vinicio Carlon: cinque anni di lavoro con lui sono stati l’equivalente di 20 anni di un lavoro normale. Mi ha insegnato molto soprattutto per quanto riguarda la gestione applicata, un aspetto importantissimo per un locale.

Ti piace di più lavorare sulla carne, sul pesce, sulle verdure, su una materia in particolare?
Da romano e un po’ perché il Ghetto mi è rimasto nel cuore, rimango innamorato del quinto quarto. È una parte difficilissima da cucinare. Ci vuole poco per fare bene un filetto, ma ci vuole tanto a fare bene una coratella, un’animella, cervello, schienali, paiata. Devi conoscere bene il prodotto, devi avere esperienza, devi conoscere la materia prima. Il quinto quarto è molto difficile da lavorare, soprattutto in ristoranti ad alto livello.

Soprattutto nelle cotture…
Certo. Il mio approccio alla cucina è sempre di origine tradizionale. Sulle cotture si sono fatti passi avanti con le tecniche, in qualche caso possono servire le basse temperature anche se io non amo mettere tutto dentro le buste: mi sembra di far morire una, due volte un prodotto di alta qualità.

Preparare al momento non ha un valore aggiunto, ma è assoluto
Sì, io amo ancora usare le padelle e ne vado abbastanza fiero.

Ti ritieni soddisfatto del tuo percorso professionale?
Sì, sono contento di quello che ho fatto e non cambierei nulla. Sono rimasto attaccato a Roma perché ho una famiglia stupenda. Nella mia vita c’è il lavoro e c’è la famiglia. Ora poi rappresento la Casina Valadier, un posto unico a Roma e al mondo.

I romani capiscono la tua cucina?
La mia cucina non è di difficile comprensione. Credo che si possano fare passi avanti sulla cultura del cliente, però sta anche a noi essere bravi a spiegare quello che facciamo in questo posto veramente meraviglioso.

Fregola in guazzetto di scoglio, calamari e frutti di mare - Massimo D’Innocenzi Cuoco d’altri tempi
Fregola in guazzetto di scoglio, calamari e frutti di mare

Proponi una ricetta eccezionale con la fregola, piatto che lascia cicatrici nella memoria del palato. Piatto che non trovi in nessuna carta dei ristoranti romani…
La fregola sarda è una pasta che ricorda il cuscus come preparazione perché anch’essa viene fatta con il grano duro, ma poi viene tostata e la differenza è proprio la tostatura: la fregola assume un profumo completamente diverso. Poi in cottura è molto più dura e rilascia d’amido molto più orolentamente. Io la cucino da una ventina d’anni, forse sono stato uno dei primi a usarla. Questo è un piatto che attualmente faccio con un sugo di scoglio: lo lavoro con gli scorfanetti, le tracine e faccio il sugo con le lische. Il risultato è un fondo di pesce molto profumato dove compare il peperone, il finocchietto selvatico, i fiori di finocchio.

La ricetta?
È una ricetta abbastanza complicata perché il fondo di pesce è molto aromatico per via del pomodoro e di tutti gli aromi. Poi il sugo viene filtrato e la cottura viene fatta con questo brodo di pesce con l’acqua dei frutti di mare. Il pesce viene messo tutto alla fine, in mantecatura: uniamo i frutti di mare, il pesce crudo a cubettini e i calamari julienne. È un piatto che mi piace fare saporito, leggermente piccante perché, per me, la fregola deve essere leggermente piccante e questo fa la differenza.

Quello di Massimo D’Innocenti è un racconto d’altri tempi, poca tecnica ma tanto impegno e lavoro. Sentire i passaggi della sua vita e crescita nel mondo del food è “poesia gastronomica”, è una scuola che molti giovani e talentuosi chef oggi non hanno mai frequentato: “animelle, cervello, schienali, carciofi, paiata…”

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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