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I genitori devono aiutare i figli a scuola? No, a meno che siano loro a chiederlo

 
01 giugno 2018 | 13:28

I genitori devono aiutare i figli a scuola? No, a meno che siano loro a chiederlo

01 giugno 2018 | 13:28
 

Il dilemma è eterno: è giusto che i genitori aiutino i figli a svolgere i compiti a casa? Secondo alcuni, no. Per altri è quasi doveroso. La verità, probabilmente, sta nel mezzo: aiutarli, solo su richiesta.

Di questa diatriba si è occupato uno studio delle Università della Finlandia orientale e di Jyväskylä. L’esito è stato netto: aiutare troppo i figli a fare i compiti nuoce al loro sviluppo. Ad analizzare lo studio e ad entrare nel merito con un’analisi mirata è Marco Nuara, pediatra di Humanitas San Pio X che ne ha parlato in un articolo pubblicato su Humanitasalute che qui riportiamo integralmente.

(I genitori devono aiutare i figli a scuola? No, a meno che loro non chiedano aiuto)
 

In una società competitiva, la scuola lo è a sua volta. Ecco che allora diventa difficile per il genitore lasciar sbagliare il figlio, accettare che non sia il primo della classe o che nemmeno ci provi. Una possibile spiegazione è legata al fatto che quando la madre dà al bambino l’opportunità di fare i compiti autonomamente, invia anche un messaggio a dimostrazione che crede nelle sue capacità. Al contrario, invece, un’assistenza concreta per i compiti da fare a casa (specialmente se non è richiesta dal bambino) può inviare il messaggio opposto, e che quindi la madre non crede nella capacità del figlio di fare i compiti.

Che si tratti di terza elementare o scuola media, farsi in quattro per dare assistenza ai ragazzi che studiano non è la scelta giusta. Al contrario, renderli autonomi, anche a costo di qualche errore, li fa diventare più tenaci. Il modello che molti genitori rappresentano è quello della mamma o papà “spazzaneve”. Invece di stare al fianco del figlio, gli adulti gli si mettono davanti per parare tutti gli eventuali problemi e, guidati dall’ansia di sostenere la crescita dei figli, quasi si sostituiscono a loro. La scuola per i bambini va invece vista come un allenamento, dove la priorità non è sempre quella di raggiungere l’obiettivo.

Anziché abituarsi a gestire i compiti in autonomia e a conquistare nuovi spazi, i figli iniziano ad aspettarsi che il genitore metta loro a disposizione le proprie competenze, sviluppando anche l’ansia da prestazione. Errori e imperfezioni invece, tipici dell’età evolutiva, vanno tollerati e accettati per insegnare ai figli a farlo in prima persona. Dagli errori si impara: sono uno stimolo per crescere.

Il pediatra esorta a ripeterlo in continuazione al proprio figlio: “Non preoccuparti se fai degli errori, sbagliando si impara! Anche papà e la mamma facevano tanti errori e poi hanno imparato a non farli più.”

I genitori devono farsi un po’ da parte. Tranne quando è il figlio a chiedere aiuto. Solo in quel caso c’è un buon motivo per entrare a far parte nella vita scolastica del proprio figlio che, se ha davvero bisogno, deve imparare a chiedere aiuto. Ma come essere certi che i ragazzi non facciano di tutto per finire i compiti in fretta invece che farli bene e con attenzione?

Gli adulti possono mettere in atto delle strategie che servono a disciplinare il tempo che dedicano allo studio in modo che non abbiano distrazioni. In questo modo i genitori sono degli allenatori che restano a bordo pista. Vietato, alla fine, correggere loro i compiti: bisogna sforzarsi di lasciarli così come i ragazzi li hanno svolti, anche se ci sono errori. In questo modo i ragazzi, affrontando la scuola da soli, imparano a prendersi le responsabilità di quello che fanno.

Ovviamente un approccio che premi maggiormente l’autonomia e tolleri gli errori va condiviso anche dagli insegnanti, altrimenti il bambino potrà risultare confuso o frustrato- Personalmente condivido i risultati dello studio, tuttavia la mia esperienza di pediatra e di genitore di due bambini alla scuola primaria purtroppo è differente. L’introduzione delle prove Invalsi poi è stata recepita come un ulteriore esame per alunni ed insegnanti con conseguente maggior stress prestazionale per entrambi. Questo si traduce in una ingravescente insicurezza dei bambini e un aumento negli ultimi anni delle manifestazioni ansiose come disturbi psicosomatici, balbuzie e tic.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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