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Quale futuro per bar e ristoranti? Più rigore per aprire un locale

Basta con la liberalizzazione che ha devastato il settore: abbiamo il doppio dei locali della Germania. Troppi improvvisati. Formazione e regole uguali per tutti coloro che somministrano cibo. Imprese troppo deboli e senza preparazione hanno aperto spazi all'ingresso della criminalità. Servono un freno e più rigore.

di Alberto Lupini
direttore
 
16 novembre 2020 | 08:15

Quale futuro per bar e ristoranti? Più rigore per aprire un locale

Basta con la liberalizzazione che ha devastato il settore: abbiamo il doppio dei locali della Germania. Troppi improvvisati. Formazione e regole uguali per tutti coloro che somministrano cibo. Imprese troppo deboli e senza preparazione hanno aperto spazi all'ingresso della criminalità. Servono un freno e più rigore.

di Alberto Lupini
direttore
16 novembre 2020 | 08:15
 

L’obiettivo prioritario oggi è salvare dal fallimento quasi certo 50mila fra bar e ristoranti costretti a chiudere dalla pandemia. Al di là del disastro sanitario, è questo uno dei più terribili effetti che la pandemia scatenerà sul piano economico. Per restare solo ai pubblici esercizi si parla di almeno 300mila disoccupati e di decine di migliaia di esercenti che non potrebbero avviare altre attività perché “falliti”, non già per incapacità (alcuni magari anche) ma perché costretti a chiudere dallo Stato. Per evitare una marea di fallimenti la Fipe ha chiesto al Governo con urgenza un piano “salva imprese” basato su un “Fondo chiusura delle imprese causa Covid”, a cui collegare nuove norme sulle crisi di impresa per preservare il futuro imprenditoriale di migliaia di persone che altrimenti si ritroveranno impossibilitate ad operare a causa di un evento del tutto esterno ed imprevedibile.

Quale futuro per bar e ristoranti? Più rigore per aprire un locale


Ma se con questo intervento si può cercare di “accompagnare” e contenere gli effetti più devastanti della crisi, è tempo di pensare con decisione anche a riorganizzare l’intero comparto caratterizzato nel periodo pre-covid da un’eccessiva debolezza strutturale, nonché da numeri, oggettivamente, troppo elevati. In Italia abbiamo il doppio dei pubblici esercizi della Germania: e non è che i tedeschi non amino bere e mangiare in compagnia! Uno dei problemi centrali del comparto è in effetti quello degli accessi senza regole. In queste attività sono entrati troppi improvvisati e la criminalità si è rafforzata. Il risultato è stato lo scardinamento di molte regole della libera concorrenza e di una sana gestione. E oggi con la crisi se ne pagano le conseguenze. Da qui la necessità di rivedere la situazione e garantire un futuro più serio alle imprese sane.

Gli errori della liberalizzazione di Bersani
«Bisogna guardare al futuro - ci dice in proposito il direttore generale della Fipe, Roberto Calugi - e per questo riteniamo imprescindibile, come ripetiamo da anni, rivedere i criteri di accesso al settore della ristorazione e dell’intrattenimento. Questo periodo di crisi ha evidenziato con tutta evidenza la fragilità del sistema e i limiti di un approccio di “semplicistica semplificazione” che ha avuto inizio con la legge n.223 del 2006 che sta mostrando i suoi limiti rispetto ad un mercato fortemente evoluto nel corso degli ultimi anni». Come dire, aggiungiamo noi, che la presunta liberalizzazione della legge voluta dall’allora ministro Bersani ha mostrato tutti i limiti e gli errori di un’impostazione che non aveva nulla di “liberale”, ma era semplicemente una sorta di “liberi tutti” perché ognuno facesse quel che voleva, alla faccia della professionalità, della preparazione e, soprattutto, della sicurezza dei consumatori.

Già, perché grazie a Bersani chiunque ha potuto aprire un bar. E la gran parte di questi esercizi si sono messi a fare anche cucina, pur non avendo magari neanche un minimo di formazione della scuola alberghiera. E a cascata, questa sorta di finta democrazia economica ha portato al proliferare di imprese, quasi sempre senza patrimonio, che fanno somministrazione di cibo e bevande, mentre proliferavano in tutta Italia corsi farlocchi per dare titoli di cuoco professionista dopo poche ore di lezione in aula…

 Quale futuro per bar e ristoranti? Più rigore per aprire un locale

La verità è che negli ultimi anni il comparto dei pubblici esercizi è stato troppo spesso serbatoio di improvvisazione imprenditoriale perché una reale mancanza di requisiti professionali all’ingresso ha generato un eccesso di offerta basato su radici fragili.

«Per questo - dice Calugi - va rivisto con immediatezza l’impianto normativo che regola il settore, al fine di identificare dei parametri di ingresso al mercato più stringenti e qualificanti. Va implementata una visione del Paese in un settore così rilevante per l’economia e l’attrattività turistica. Colpisce che in un settore così delicato, “siamo quello che mangiamo”, si lasci spazio a tanta improvvisazione».

Rafforzare patrimonio e formazione
Il che è quanto Italia a Tavola va sostenendo da anni:

  • rafforzare il sistema di formazione, anche continua, per i dipendenti e per gli stessi imprenditori del settore.
  • rafforzare i requisiti patrimoniali in aziende che, oltre a svolgere funzioni sociali importanti, ormai sono divenute responsabili dell’occupazione di una parte rilevante della forza lavoro italiana e di una componente importante del Pil del Paese.

Ma tutto ciò sarebbe inutile se non ci fosse una “cabina di regia” per il mondo dell’accoglienza e del turismo che oggi è figlio di nessuno con competenze frazionate fra troppi Ministeri e con tutti gli organi di polizia e controllo pronti a fare controlli e richiedere norme che spesso sono in contraddizione fra di loro. Finché le cose andavano bene, pazienza. Ora però non è più sopportabile un sistema di garanzia che è inefficiente.

Decisa la posizione della Fipe: «È importante richiamare l’improcrastinabilità di un rafforzamento del posizionamento politico istituzionale del settore, che vede le sue aree di competenza frazionate fra diversi dicasteri, con la conseguente mancanza di un coordinamento di filiera efficace e soprattutto con la mancanza di una visione complessiva in grado di promuoverne le enormi potenzialità di sviluppo. Il settore pur essendo la componente principale del valore aggiunto della filiera agroalimentare del Paese ed il principale fattore di attrattività turistica, al di là delle generiche attestazioni di stima, rischia di non rappresentare nei fatti una priorità nelle linee di intervento di alcun Dicastero».

Un unico Ministero per il mondo dell'accoglienza e del turismo
Libro dei sogni? Un unico Ministero? In realtà un segnale di novità era stato il primo governo Conte che col ministero delle Politiche agricole e del Turismo unificati cercava di dare un po’ di ordine. Da lì bisognerebbe ripartire perché il comparto dei pubblici esercizi, della ristorazione e dell’intrattenimento merita di essere al centro di un piano nazionale di rilancio, preparandoci per un futuro che non potrà non prevedere un ritorno ai viaggi. Per questo serviranno le risorse del Recovery Fund, che vanno indirizzate al meglio in un’ottica di sviluppo per rilanciarne gli investimenti, sostenere la domanda con interventi mirati e far tornare quanto prima questo comparto a correre. Pensare di sostenere con finanziamenti pubblici progetti decotti come Alitalia sarebbe solo un modo di affossare per sempre il nostro futuro.

Quale futuro per bar e ristoranti? Più rigore per aprire un locale

Basta artigiani, commercianti o agricoltori: serve un unico comparto per chi somministra cibo
E, aspetto non certo secondario, occorre superare le attuali divisioni per categorie (commercianti, artigiani e agricoltori) fra le imprese che fanno somministrazione di cibo. Chi gestisce un ristorante, una pasticceria, una pizzeria, un agriturismo, una rosticceria o chi propone street food deve avere le stesse regole da rispettare: sul piano fiscale come della sicurezza igienico sanitaria, per la previdenza come per la tracciabilità dei prodotti. Le antistoriche divisioni di oggi vanno superate e va creato un unico comparto di chi somministra il cibo, in stretto collegamento con quello dei produttori, di cui sono poi i terminali più importanti. E in questa prospettiva, ogni azienda che propone servizi legati al cibo deve avere obbligatoriamente un cuoco in organico, pena l'impossibilità di operare. Questa sarebbe la vera rivoluzione capace di dare valore e un futuro a tutta la filiera dell'agroalimentare italiano. Il resto sono solo chiacchere o tentativi di ritornare ad un passato malato e superato.

Purtroppo, questa crisi inciderà profondamente a livello strutturale nel comparto della ristorazione e dell’intrattenimento italiano. Per questo bisogna pensare al futuro, lavorare oggi per farsi trovare pronti quando questa terribile crisi terminerà. Non bruciamo ciò che questo dramma ci ha insegnato: le soluzioni del passato sono almeno in parte alla base di questo caos. 

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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