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La Fòcara di Novoli sublima se stessa con una coreografia aerea e giochi di luci

La tradizionale Fòcara, che ogni anno celebra Sant’Antonio Abate, patrono della città pugliese, ha sublimato se stessa con l’incanto di una meravigliosa scenografia e una coreografia aerea a più di 30 metri di altezza

di Michelangelo Romano
 
20 febbraio 2015 | 17:01

La Fòcara di Novoli sublima se stessa con una coreografia aerea e giochi di luci

La tradizionale Fòcara, che ogni anno celebra Sant’Antonio Abate, patrono della città pugliese, ha sublimato se stessa con l’incanto di una meravigliosa scenografia e una coreografia aerea a più di 30 metri di altezza

di Michelangelo Romano
20 febbraio 2015 | 17:01
 

In onore di Sant’Antonio Abate, il Santo che rubò il fuoco agli inferi per donarlo agli uomini, in quasi tutti i comuni del Salento e in altri paesi della Puglia, è ancora molto viva l’usanza, che si innesta su antichi riti pagani propiziatori, di accendere falò per strada. A Novoli (Le) il culto per Sant’Antonio Abate fu reso ufficiale il 28 gennaio del 1664, allorché, come attestano antichi documenti, il vescovo Luigi Pappacoda concesse solennemente l’assenso canonico alla supplica dell’Università e del Clero, dichiarando il Santo del fuoco protettore della città.

E ogni 16 gennaio Novoli non può rinunciare alla sua Fòcara, una costruzione troncoconica formata da circa novantamila fascine, sotto la quale potrebbe addirittura passare una processione, ormai conosciuta come la pira più grande del bacino del Mediterraneo: 20 metri di diametro per 25 di altezza.



Nel tempo - è vero - sono cambiate o si sono perse alcune curiose usanze, come quella di issare sulla cima del falò un ramo di arancio, carico di frutti, colto nel giardino di un prete (“la maràngia te papa Peppu”) o di far scorazzare libero per il paese “lu ‘ntunieddru” (diminutivo dialettale di Antonio), un maialino-mascotte con un fiocco rosso al collo. Ma, d’altro canto, l’evento ha acquistato maggiore notorietà e, da alcuni anni, è cresciuto mediaticamente, ripetendosi puntuale, come da calendario, con un intenso programma religioso e civile, che parte sin dal 15 gennaio, fra tradizione, arte, cultura, e con ospiti del panorama artistico internazionale.

FòcarArte, rassegna curata da Toti Carpentieri, e FòcarFestival, curato da Loris Romano, sono la cornice all’interno della quale, per fare qualche nome, si muovono fotografi come Peppe Avallone, che ha fotografato la scorsa edizione della Fòcara, Paola Mattioli (Premio Fòcara Fotografia 2015), l’arista Francesco Arena, oppure musicisti come Emir Kusturica e la sua “No smoking orchestra”, il cantante rock francoalgerino Rachid Taha, il batterista nigeriano Tony Allen, il beatmaker britannico Adrian Sherwood e Hollie Cook, una figlia d’arte, che - ci dicono - mixa la musica jamaicana e il tropical pop. Qui si portano avanti interessanti sperimentazioni musicali, come quella di “Lu Ballubaleti” (Mascarimirì e Nux Vomica), dove il groove della pizzica salentina si fonde con la farandola nizzarda.

I prodotti tipici locali, oltre che nell’affollato e tumultuoso mercato che si snoda per le vie cittadine, trovano ampio spazio nel Salone “Cupagri”, sostenuto dal Gal Valle della Cupa, e risalto nel concorso “Penne al dente”, che, organizzato dalla Coldiretti, vede alla prova dei fornelli numerosi giornalisti assistiti da cuochi salentini.

Bisogna, però, comprendere che la Fòcara, questo “Fuoco così grande”, è innanzi tutto un religioso atto di Amore: è amore bruciante di tutta la comunità novolese per Sant’Antonio Abate, il Santo protettore; è amore per la terra, madre nutrice, e per il lavoro nelle vigne del Negroamaro, da cui provengono i tralci e le fascine con le quali viene innalzata, da sempre, la sacra pira; è simbolo di amore fra Popoli affratellati da sentimenti di pace e amicizia.

Un amore così grande...
È ciò che avvertiamo quando, da una posizione più in alto, stretti fra migliaia di persone, in attesa del grande spettacolo, la catasta, dopo i primi accenni, si lascia avviluppare da improvvise e sguscianti lingue di fuoco, fino ad ardere in una pioggia di faville (fascìddre). Le fiamme la attraverseranno per giorni interi fino a consumarla del tutto e dalle ceneri riprenderà il fertile ciclo della vita che si rinnova.

Prima di bruciare la Fòcara è stata lo schermo (il video è stato realizzato da Donpasta) su cui abbiamo visto stagliarsi, in ipnotiche proiezioni cinetiche, le ombre, le sagome, i corpi, i volti di quegli stessi uomini che l’hanno voluta, costruita e rifornita di tralci. Come in una epifania, appaiono contadini e donne bruciate dal sole, che entrano nei vigneti, potano e rimontano le viti, affastellano sarmenti e fascine, che passano di braccia in braccia, per essere caricate sui carri che le porteranno, sin dai primi giorni di dicembre, proprio nel luogo dove noi ci troviamo, nella piazza intitolata al grande tenore leccese Tito Schipa.

Quest’anno la Fòcara ha sublimato se stessa, con l’incanto della meravigliosa scenografia e dell’aerea coreografia, che una intelligente regia ha pensato bene di aggiungere al tradizionale spettacolo pirotecnico preceduto dal suono delle campane a festa. Hanno volteggiato a lungo, intorno, sospese a più di 30 metri di altezza, bianche ed eteree figure angeliche tra fosforescenze e giochi di luce. Tutti col naso in aria a seguire queste acrobatiche evoluzioni regalate della compagnia teatrale spagnola Xarxa Teatre, che ha al suo attivo esibizioni nei cinque continenti. Ha galleggiato muto, fluttuando nell’oscurità del cielo, un grande, coloratissimo e simbolico pesce, fino a che una fiammeggiante effige di Sant’Antonio Abate non è scesa sulla sommità della Fòcara a dare più evidenza al significato religioso della Festa.

All’improvviso, si odono gli spari; in un continuo crepitio, inizia uno spettacolo piromusicale senza eguali, dentro il quale migliaia di spettatori restano ammaliati per tutto il tempo che dura: fischi, botti, colpi singoli, intere batterie di spari, pennacchi, volute e vorticose girandole, baffi colorati, bizzosi serpentelli, piumati flabelli, ombrelli di fuoco festoso e fontane iridescenti su una fumosa cortina di cielo color della pece, mentre la Fòcara, mediante potenti proiezioni di fasci luminosi, si ammanta di chiazze rosse e blu.

La massa di gente ora si sposta, ondeggia, si riversa per le vie di Novoli e la festa continua prosaica, fra musiche e ritmi, fra bevute e degustazioni di sapido cibo di strada.

I simboli di Jannis Kounellis
Dopo Mimmo Paladino con i “cavalli” (2012), Ugo Nespolo con i “numeri” (2013), Hidetoshi Nagasawa con la “scala che porta al cielo” (2014), quest’anno è stato affidato a Jannis Kounellis il progetto di creare un abbinamento fra la Fòcara, prodotto della sapienza manuale dei maestri pignunai, e l’arte contemporanea.

Kounellis, che, non molto tempo fa, ha esposto anche a Bari nel Teatro Margherita, è uno dei più controversi protagonisti dell’Arte Povera. Oggi ottantenne, nel 1956, a venti anni, da giramondo, lasciò il natìo Pireo per studiare presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. E in Italia ha sviluppato tutto il suo personalissimo e antitradizionale percorso di ricerca di nuovi mezzi espressivi, che, iniziato fra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60, lo portò subito ad esaltare la funzione collettiva e pubblica del linguaggio artistico, facendo ricorso sia ai più svariati materiali (iuta, legno, ferro, animali vivi o morti, indumenti usati, ecc.), con i quali crea geometriche installazioni, sia alla pura performance, per rendere evidente l’idea, che egli coltiva, del perenne conflitto tra le sovrastrutture culturali e la natura, con l’artista non più demiurgo ma solo occasionale e meccanico tramite relazionale tra il pubblico “protagonista” (senza il quale l’opera artistica resta monca) e la cruda realtà che viene rivisitata.

Non è la prima volta, a Novoli, che Kounellis “scherza” col fuoco, visto come mitico elemento della natura: ricordiamo, infatti, la sua “Margherita di fuoco” (anni ‘60), generata da un cannello a gas. Visitando la mostra allestita presso il Palazzo Baronale di Novoli, ci tornano in mente anche le polemiche sorte, nel 1969, intorno alla sua esposizione dei “Cavalli” (cavalli veri!) nella galleria romana d’avanguardia L’Attico, e ancora, nel 1989, a Barcellona, intorno a una sua scenografica opera nella quale venivano mostrati al pubblico quarti di bue macellati di fresco, appesi a pannelli metallici traslucidi e illuminati da lampade ad olio.

L’operazione artistica compiuta a Novoli da Kounellis, per la Fòcara e sulla Fòcara, ha evidentemente un suo senso. Forse pochi lo sanno e se ne sono accorti: l’artista, prima che fosse eretta la catasta di fascine, trafitta dalle lunghe putrelle di ferro, ha voluto dare una simbolica base alla pira facendo posare grossi massi bianchi, a comporre una croce sormontata da una campana, così che questi due simboli della tradizione religiosa e della devozione al Santo patrono, attraverso l’opera distruttrice e, nello stesso tempo, vivificante del fuoco, potessero tornare visibili al popolo solo dopo la totale consunzione della catasta.

La stessa operazione logica ed emozionale, che qui si fa più intima, Kounellis, in altro modo, ha ripetuto nel suo “manifesto d’autore” (nella foto qui sotto), disponendo sempre a forma di croce, alcuni bicchieri, oggetti del nostro quotidiano, i quali, capovolti, imprigionano il fumo, quello dei suoi amati sigari, e così sembrano annientare la vita, l’artista e l’uomo stesso; una rosa vermiglia, simbolo dell’Amore, è, però, deposta su questa croce-sarcofago, a significare come l’amore riesca a sconfiggere anche la morte.



Il mondo è un incontro di fritture?
La sera di sabato 17 gennaio, le braci della catasta, che lentamente andava consumandosi, hanno offerto la possibilità a due personaggi del mondo della gastronomia di esibirsi in una loro dissacrante performance, la così detta “grigliata esagerata”.

«Quando vi dicono che il mondo è un conflitto di culture, ricordatevi che il mondo è un incontro di fritture. Noi veniamo da questa storia, non dalle riduzioni di scalogno. Siate orgogliosi della vostra storia», hanno scandito, verso la folla assiepata ai piedi della Fòcara, DonPasta (al secolo Daniele De Michele), ex economista di origini salentine e cultore della buona musica, e Chef Rubio (alias Gabriele Rubini), ex rugbista romano, un guascone che si vanta di uscire dalla scuola di Gualtiero Marchesi e fa rabbrividire i seguaci dell’igiene.

A modo loro, i due irriducibili “attivisti del cibo” sono eroici e simpatici combattenti di una guerra della Cucina popolare, che non va oltre Artusi, contro la Cucina banale della Prova del Cuoco e quella globalizzata o modaiola e fighetta di MasterChef. Come al solito, da autentici e istrionici gourmet, hanno dato spettacolo, condendo i “turcinieddhri”, le bombette, il sanguinaccio e molte varietà di carne e pesce, che cuocevano fumigando odorosi sulle griglie, con frizzi, lazzi, massime gastrofilosofiche e salaci motti popolari, in una inverosimile lezione di cucina da strada, che ha radunato entusiastiche torme di fans e conquistato nuovi adepti.



Invece, dalla “grigliata esagerata” hanno dovuto, prudentemente, stare alla larga i Novolesi più ligi alle tradizioni, per evitare di sgarrare: infatti, nel giorno di totale devozione al Patrono, ci si dovrebbe attenere all’usanza di non ‘ncammarare, ovvero di astenersi da carni e latticini e limitarsi a mangiare “di magro” (giusto per dire). A chi vuol seguire l’ortodossia sono consentiti soltanto... gnocchi in zuppa di baccalà o pesce, scapèce (nella foto sopra) (pescetti conservati con zafferano, pangrattato e aceto), frutti di mare, pìttule, purciddhrùzzi, cartiddhràte e altri dolci del periodo natalizio, da mandar giù con qualche bicchiere di Negroamaro o Salice salentino, di Primitivo o Malvasia nera leccese, oppure di buon rosolio o… moscatella, un vino che intreccia la sua storia con le tradizioni della Fòcara e che viene dato quasi per disperso.

La moscatella e il miracolo di Zio Pasquale
La moscatella, in dialetto muscatèddhra, come in loco viene chiamato il poco conosciuto Moscato di Novoli, è ottenuto dal Moscatello Selvatico, un vitigno autoctono di bassa resa, che, una volta, nessuna famiglia novolese si faceva mancare, nel proprio appezzamento, perché era usanza consumare la muscatèddhra in compagnia, durante le feste, e offrirlo agli ospiti e ai pellegrini proprio durante i festeggiamenti di Sant’Antonio Abate.

Adesso, a parte le piccole produzioni familiari, qualche bottiglia la si può acquistare presso le Cantine Guerrieri, ubicate a due passi da piazza Tito Schipa: l’etichetta è “Santa Lucia”, un centinaio di bottiglie numerate, 100% Moscatello, un moscato passito Igp Salento, affinato in silos di acciaio, dal bel colore ambrato.



I due giovani e appassionati fratelli che oggi conducono l’azienda vinicola ci ricordano come questo “miracolo” sia da attribuire alla santa determinazione di zio Pasquale (Pasquale Guerrieri), il quale, oltre trent’anni fa, reimpiantò in un suo appezzamento monovarietale il vitigno autoctono, che stava pressoché scomparendo, dopo aver cercato, selezionato e prelevato le marze nei vigneti nei quali ancora sopravviveva in promiscuità con altre uve.

Il 18 gennaio, quando i forestieri sono ormai andati via, mentre la catasta continua a bruciare in onore di Sant’Antonio, per i Novolesi arriva finalmente la “loro” festa, la “Festa te li paisani”. Arrivederci alla Fòcara 2016.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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