Cibo, fra “senza” e “ricco di”, si rischia la confusione

Fare scelte alimentari in maniera preventiva, o semplicemente per seguire delle mode, può essere pericoloso. In molti casi bastano dei giusti abbinamenti per compensare gli eventuali effetti negativi di alcuni componenti

19 febbraio 2018 | 17:58
di Alberto Lupini
Il “cibo senza” (grassi, coloranti, sale, ecc.) rappresenta ancora una quota tutto sommato marginale dei consumi alimentari degli italiani: 7-8 miliardi di euro al massimo su un mercato di 231 miliardi. Ma è questo poco più del 3% dei prodotti a segnalare una tendenza destinata a coinvolgere sempre più consumatori. Se poi aggiungiamo la nicchia opposta, quella cioè del “cibo ricco” (fibre, vitamine, omega3, ecc.), in verità con valori di vendite ancora più bassi, poco più di 2 miliardi di euro, il segnale del cambiamento in atto è nettissimo.



Ad oggi è forse più un’operazione di marketing che un vero e proprio fenomeno sociale. Molte aziende investono infatti in pubblicità di articoli “free from” o “rich in”, per spingere dei brand che trascinano alla fine la gran massa della produzione. Ma è indubbio che l’attenzione dei consumatori si è ormai attivata e si è aggiunta alle preferenze sempre più ampie per i prodotti bio. Il tutto, ovviamente, coinvolgendo una fascia mediamente alta del mercato, trattandosi di cibo a più alto costo.

L’attenzione alla salute e al benessere sono ovviamente le motivazioni principali per cui si scelgono alimenti a basso contenuto di componenti che, in dosi eccessive, sono ritenuti dannosi. Zuccheri, grassi e sale sono ovviamente nella lista nera. Così come al contrario ferro, calcio e magnesio sono fra quelli ricercati. E fin qui sembrerebbe tutto chiaro. Ma è realmente così?

Scontato che, se un consumatore è diabetico, ridurre l’apporto di zucchero è utile. Così come un celiaco conclamato non può assumere glutine. Qualche dubbio può venire quando le scelte sono fatte in maniera preventiva o per seguire delle mode che non hanno magari riscontri scientifici sicuri. Pensiamo all’abuso degli estratti di frutta e verdura che hanno causato più problemi dell’assunzione di qualche cucchiaino di zucchero per via dell’elevato tasso di fruttosio concentrato.

Forse qualche attenzione in più prima di affidarsi solo al “senza” o al “ricco di” non guasterebbe. In molti casi l’abbinamento di alcuni prodotti permette di compensare gli eventuali effetti negativi di qualche componente. Piatti equilibrati e studiati per questo potrebbero essere la soluzione ottimale, capace anche di valorizzare la ricchezza delle nostre materie prime. Un po’ più di ricerca in questo settore (non solo da parte delle aziende) non potrebbe che fare bene a tutti. Anche alla ristorazione, che sta già subendo il cambiamento della domanda causato da tante, vere o presunte poco importa, dichiarazioni di intolleranza o allergie.

Il rischio di eccedere in un fai da te basato sul “meno” o sul “più” potrebbe fra l’altro aprire la strada a quel fenomeno che in Europa si sta già pericolosamente manifestando con le etichette a semaforo, in base alle quali gran parte dei prodotti italiani sarebbero “out” (semaforo rosso) per contenuto di sale, zucchero o grasso. E questo quasi che uno dovesse cibarsi di un singolo prodotto... Bere olio evo come fosse vino potrebbe anche fare male, ma usarlo come condimento è un arricchimento sul piano della salute e del piacere. Come sempre è solo una questione di buon senso e giusta quantità.

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Alberto Lupini


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