L’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Bergamo ha allestito nelle scorse ore un laboratorio di massima sicurezza dedicato esclusivamente al Covid. Un’eccellenza italiana con sede nella città più colpita dal coronavirus potrebbe riuscire nell’impresa di trovare l’antidoto al contagio.
Mario Negri in prima fila per la lotta al coronavirus
Le regole per accedervi sono ferre: possono accedere soltanto i ricercatori selezionati allo studio del virus e la vestizione prima di varcare quella porta blindata richiede tempo e scrupoli. Tuta integrale di base e poi camice, cuffia, mascherina, guanti, occhiali, stivali alti e soprascarpe. La coordinatrice
Ariela Benigni, interpellata da
L’Eco di Bergamo ha spiegato: «Nel nostro campo non si può essere assolutisti, sotto vuoto. Stiamo valutando quali alterazioni sono presenti nei tessuti dei pazienti affetti da Covid 19 e nello stesso tempo stiamo sperimentando i farmaci che lo possono contrastare».
Sotto la lente di ingrandimento sono finiti dieci malati medio gravi, ritenuti un campione adeguato a dare risposte sulle quali si sta indagando. Il Negri di Bergamo si è preso un piccolo margine di vantaggio avendo predisposto un test unico al mondo messo proprio a Bergamo nello studio di alcune patologie rare. In America hanno tentato di replicarlo, ma senza successo. Cosa prevede il test? In primis, evidenziare l’alterazione di una cellula e nello stesso tempo offrire la risposta di uno o più farmaci in grado di stabilizzarla, guarirla.
L’attenzione dei ricercatori si sta concentrando su un medicinale in particolare, non in commercio nei canali delle farmacie, ma prodotto dalle multinazionali. Potrebbe rivelarsi efficace nella battaglia contro il virus. Nelle prossime ore il responso di alcune analisi potrebbe essere decisivo. È una corsa contro il tempo e i primissimi dati registrati nei giorni scorsi hanno generato tra gli scienziati del Negri un moderato ottimismo, ma è troppo presto per trarne le conclusioni.
Non manca molto però, questione di una, massimo due settimane e dal laboratorio al Kilometro rosso potrebbe uscire una proposta di cura in collaborazione con l’ospedale Papa Giovanni XXIII (con cui l’Istituto Negri ha da sempre condiviso le ricerche cliniche) per la sperimentazione diretta sul paziente e naturalmente al mondo intero. La dottoressa Benigni non si sbilancia ma nel suo sguardo tradisce emozione: «Si tratterebbe comunque di una prima risposta scientifica al coronavirus, ma la cura rappresenterebbe soltanto un ponte in attesa del vaccino». Nel laboratorio si lavora senza tregua, il fattore tempo è fondamentale per salvare vite umane. «Non voglio dare false speranze - conclude Ariela Benigni - ma i primi risultati ci stanno convincendo di essere sulla buona strada».