Quanto vale la Cucina se il Cuoco è fuori sede?

11 maggio 2015 | 10:06
di Alberto Lupini
Un piatto e un servizio hanno lo stesso valore se il Cuoco è presente, o meno, in Cucina? E - in modo ancora più brutale - è giustificato lo stesso conto sia in un caso che nell’altro? Se fossimo in giro per il mondo le domande non si porrebbero nemmeno, tanto sono scontate le risposte: sarebbe un sì secco per entrambe. Ma siamo in Italia, e le cose non sono così scontate. Gli eccessi televisivi, le guide o manifestazioni come Identità Golose hanno trasformato alcuni cuochi, più o meno stellati, in vere “star” della passerella e lo chef (termine che da sempre non ci piace) è diventato la punta di diamante di un locale. Al punto che, oltre a cucinare, deve sapere anche intrattenere gli ospiti e a volte fungere anche da consulente o psicologo. Siamo arrivati al punto che a volte la sola presenza in sala della toque giustifica prezzi e piatti al limite della decenza.

Da qui un malumore sempre più ampio fra i clienti che spesso si trovano delusi per non potere vedere, se non addirittura toccare, lo “chef”, perché impegnato in eventi o promozioni lontano dal suo locale. Una situazione che, almeno per alcuni dei più famosi cuochi italiani, diventerà quasi una regola nei prossimi mesi visti gli ingaggi fuori dal loro locale per l’Expo. E le lamentele che abbiamo raccolto in questi giorni sono solo un’avvisaglia di come potrebbe montare presto una polemica.

Se non fossimo in Italia, come detto, non ci sarebbe nemmeno da aprire una discussione. Un dato per tutti: Alain Ducasse, uno dei più celebrati cuochi al mondo, gestisce ben 25 locali (così almeno appare sul suo sito ufficiale) di cui ben 3 con 3 stelle. E non è un caso isolato in Francia, né nel resto del mondo. Da noi però è un’altra storia, tanto che di stellati con più locali di famiglia ce ne sono pochissimi. E al massimo, quando va bene, abbiamo esperienze di successo aperte fuori dall’Italia.

Ma perché i Cuochi-patron non riescono a ripetere i loro modelli di successo in Italia? O se lo fanno, perché non trovano il consenso del pubblico?

Le ragioni sono tante, ma fra tutte primeggia forse il modo un po’ superato in cui in genere noi italiani viviamo l’individualismo e un modo errato di sentirsi creativi. Invece di trasferire esperienze e indicare regole e procedure precise, si punta un po’ troppo spesso anche nel ristorante sull’interpretazione personale. Il che rende certamente uniche le esperienze a tavola in Italia e le nostre Cucine sono un unicum in tutto il mondo. Ma sono anche modelli difficilmente replicabili. Se poi pensiamo che le scuole alberghiere in genere non preparano le nuove generazioni con regole riconosciute e codificate ovunque, si capisce come non ci sia un terremo fertile per fare crescere le imprese.

Giusto il contrario di quanto succede ad Alain Ducasse, che grazie ad un sistema nazionale basato su regole condivise può rivendicare apertamente il diritto dello chef a non trovarsi in permanenza ai fornelli. Cuoco-creativo, gestisce le sue equipe ed è la fonte d’ispirazione essenziale delle ricette, dell’atmosfera, del design, dell’organizzazione delle cucine e delle arti della tavola. Nessun collega italiano può però permettersi di dare la sua impronta a più locali, perché (salvo rare eccezioni) più che cimentarsi come imprenditori alcuni cuochi-patron si pavoneggiano come se fossero artisti o maître à penser, finendo poi per fare i promoter.

Lo stare un po’ troppo sotto i riflettori (come capita a calciatori o attori) ha modificato però il rapporto col cliente, che in certi ristoranti (soprattutto se cari o molto caratterizzati) ci va come se andasse a teatro. E si arrabbia se non c’è il protagonista, ma il secondo... magari più bravo del cuoco titolare.

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