Che lo scontro sia diretto, mediato, linguistico o metaforico, così si trova la propria equity. Che gli spettatori discutano, ci diano dignità e forte profilo, anche se resteremo un prodotto con quota di mercato piccola. Ma saremo impressi nella testa dei consumatori. È necessario rischiare per cambiare il mercato.
Come spesso succede al rientro delle vacanze, davanti a un nuovo anno di consumi, le aziende che hanno lavorato bene in precedenza si presentano al pubblico con i nuovi posizionamenti. L’autunno 2017, dopo nove anni di crisi, si presenta (forse) come il primo in cui non si piangeranno lacrime amare. Ed ecco che la corazzata Barilla, la Grande Madre della comunicazione food nazionale, presenta con un trailer l’evoluzione della campagna Mulino Bianco, utilizzando, come già fa con la pasta, a giovani e sani attori italiani.

I ragazzi di Jwt mettono in scena una fiction importante, ecologica e progressista, con la coppia di agronomi panificatori che sostituisce il “sexy fornaio spagnolo”. Si immagina che si tratti di nuovo corso destinato a durare. È dai tempi di Landò e Mambelli (fine anni ’70) che l’industria della prima colazione si è data alle grandi saghe: prima l’invenzione del Mulino arcaico e nostalgico, quindi un forte supporto promozionale (i cocci del Mulino Bianco, chi non ne aveva almeno uno in casa?), poi il grano in città, infine una strategia di celebrity anticrisi con il bel Banderas, che è già da un po’ di anni che invade gli slot delle trasmissioni tv.
Forse in Saatchi hanno avuto qualche soffiata, perché con tempismo divino hanno anticipato ad agosto una campagna per il Buondì Motta (oggi di proprietà Bauli) che segna l’esempio da manuale di blitz tattico. Davanti ai poderosi investimenti dell’autunno in arrivo da Parma, hanno sdoganato una svolta linguistica acida e vitale. Una pioggia di asteroidi che stermina gli stereotipi della famiglia da Mulino Bianco, in una stagione in cui gli investimenti in tv costano poco, con un fortissimo supporto di digital pr (sospetto addirittura che siano superiori i secondi ai primi).

Bravi Orlandi & Co a fare la minestra con quello che c’è in frigo. Mi sono permesso di suggerire ad Alessandro sui social di fondare il Movimento 5 Asteroidi, vista la passione con cui sulla rete, e non solo, si sono scannati il partito dei rottamatori della famiglia della pubblicità e i più tradizionalisti dei difensori delle unioni cattoindustriali.
Ripeto, niente di nuovo. Al di là del fatto che oggetti provenienti dallo spazio che schiacciano personaggi di spot non sono cosa mai vista. Esattamente come agronomi, contadini e famigliole felici, siamo nel pieno della ricerca di un nemico per potersi posizionare. Senza l’Antagonista non c’è Protagonista. Lo sapeva Omero, l’hanno applicato alla meraviglia Coca Cola e Pesi, Apple e Ibm, addirittura lo stiamo vedendo nella prima comparativa e-commerce, nello scontro tra eBay e la grigia Amazon.
“Find your enemy” è una delle prime regole che abbiamo imparato nelle scuole delle agenzie multinazionali. Che lo scontro sia diretto, mediato, linguistico o metaforico, così si trova la propria equity (valore del marchio), soprattutto quando abbiamo meno soldi del grande competitor. Niente di nuovo. Che gli spettatori ci caschino, discutano, ci diano dignità e forte profilo, anche se resteremo un prodotto con una quota di mercato piccola. Ma saremo impressi nella testa dei consumatori con valori precisi.
Quello che invece rappresenta la novità è che, per la prima volta, non vedo solo consumatori discutere sui social, ma anche colleghi accapigliarsi sul tema. E non solo creativi. Perfino il presidente di Upa (Utenti pubblicità associati), Sassoli De Bianchi, si è espresso sull’asteroide. Decine di colleghi l’hanno difeso, o attaccato, come se fosse una questione di vita o di morte per la comunicazione pubblicitaria italiana. E non un banale fatto di ricerca di posizionamento: il gigante contro il challenger, l’istituzione contro la rivoluzione, la terra coltivata contro l’asteroide che tutto appiattisce.
È grave, per quanto mi riguarda, che pochissimi creativi abbiano provato a ignorare il problema. Senza bisogno di fare nomi, pare che in realtà pochi abbiano compreso che non si tratta di cambiamenti che influenzeranno la storia della pubblicità nazionale. Mulino Bianco, con una coerenza ultra trentennale, continuerà ad influenzare la cultura popolare con la sua visione cristallina della vita familiare. Quasi a rappresentare una visione e una situazione molto italiana, ha la forza strategica ed economica per farlo. Così come continuano tutte le compagnie che operano nel nostro Paese: da quelle automobilistiche ai provider telefonici, dalle banche alle assicurazioni. Il cambiamento, purtroppo, non è dato dal “find your enemy” dei challenger di questo mercato. Bene fa la Saatchi ad insistere su una linguistica ironica per la marca Motta, dopo il panettone vegano dello scorso Natale. Ma il cambiamento culturale passa attraverso le grandi marche. Ci vogliono altri Bertelli, che rendano la leadership globale su marche come Heineken e il recente Diesel. È lì che si misura la crescita della nostra creatività nazionale.
Pensare di schierarsi con l’asteroide e di risolvere i nostri problemi è velleitario. Continuo a fare i complimenti a Orlandi & Co, che giustamente si godono l’onda del successo. Ma continuo a ricordare ai tanti altri colleghi, quelli che pensano che basti un asteroide per cambiare il panorama della nostra creatività, che il processo non sarà privo di rischi, soprattutto per noi che le campagne le pensiamo. Ci vogliono script davvero energetici, moderni e originali, certo. Ma serve che queste campagne vengano poi vendute davvero alle grandi marche, convincendo i ceo. Occorre che poi le approvino i presidenti e i proprietari delle aziende leader di ogni mercato. È necessario che i creativi, come i manager, rischino del proprio, anche fisicamente, per far cambiare questo mercato.
Purtroppo non basta partecipare. Gli impiegati qui non servono. Questa è una competizione in cui non si può pareggiare, vivacchiare, sopravvivere. Altrimenti non si resta, pubblicitariamente parlando, ai tempi del Mulino Bianco. Ma a quelli della civiltà della pietra. So di essermi fatto qualche nemico, con queste parole. Ma vi assicuro che non si tratta di strategia personale. Sto pensando a quanto le aziende italiane, e la loro comunicazione, siano rimaste indietro. E a quante risorse intellettuali inutilizzate ci siano per uscire da questo cul-de-sac.