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il libro

“Non me la bevo”: un viaggio nella verità del vino con Michele Antonio Fino

Antonella Silvestri
di Antonella Silvestri
20 maggio 2024 | 15:08

Ivino è molto più di una semplice bevanda: è un viaggio nei territori, un racconto della storia e delle tradizioni, una fusione di cultura e storia. Tuttavia, negli ultimi tempi, la sua narrativa è stata distorta da una rete intricata di etichette fuorvianti, pubblicità ingannevoli e leggende urbane che hanno oscurato la sua essenza più autentica. A fare chiarezza ci ha pensato Michele Antonio Fino, professore associato all'Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo con la sua opera "Non me la bevo" (Mondadori). In questo volume, l’autore non si accontenta di esplorare le cantine o narrare le epiche storie che si celano dietro i vigneti. Va decisamente oltre. Egli compie un'analisi penetrante sulle sofisticate strategie di comunicazione, svela le leggende millenarie e dissotterra le tendenze che hanno caratterizzato il panorama vinicolo. Attraverso il suo libro, Fino dona un compendio prezioso a chi desidera riscoprire la propria avventura enologica. Dotato di una profonda comprensione delle sfumature di terroir e microclima, abbinata a una solida base scientifica, l'autore ci conduce in un viaggio epico alla scoperta dei misteri del vino. Ogni pagina è un invito a esplorare, a comprendere e a gustare appieno la complessità di questa bevanda millenaria.

“Non me la bevo”: un viaggio nella verità del vino con Michele Antonio Fino

Il professore Michele Antonio Fino

"Non me la bevo" non è soltanto un'opera destinata agli intenditori, ma si rivolge anche a coloro che amano il vino e che, al tempo stesso, si sentono smarriti di fronte alla vastità delle opzioni e delle narrazioni che li circondano. È un invito a scrutare oltre le etichette luccicanti e le mode effimere, per scoprire il vero cuore del prodotto e riconquistare il piacere autentico di condividere, attorno a un calice generoso, momenti di autentica convivialità.

L'intervista a Michele Antonio Fino, l'autore del libro "Non me la bevo"

Cosa l'ha spinta a scrivere questo libro e a sfatare le diverse credenze popolari che aleggiano sul mondo del vino?
«Mi occupo sin dai tempi del volume Gastronazionalismo, nel 2021, di contrastare la produzione di miti fasulli intorno al cibo italiano che, per la sua qualità e per la creatività che esprime, non ha davvero bisogno di mettersi maschere o di indossare i panni di tradizioni millenarie arraffazzonate. Questo è particolarmente evidente nel caso del vino perché le tecniche di vinificazione sono state rivoluzionate poco più di 150 anni fa e da allora si può parlare di vino moderno con una sostanziale differenza rispetto a qualunque vino prodotto in Italia precedentemente».

Lei sostiene che nei secoli il processo di vinificazione del vino ha subìto diverse trasformazioni. Quali sono stati i principali cambiamenti nel corso della storia e come hanno influenzato la qualità del vino?
«Dobbiamo tenere presente due elementi per capire perché nel 1860 a Lille si determina il più importante collo di bottiglia nella storia produttiva del vino. Il primo elemento è che il vino, a differenza degli altri due grandi prodotti che derivano dalla fermentazione attraverso i funghi unicellulari saccaromiceti, ovvero il pane e la birra, si può produrre una sola volta l'anno e dunque se qualcosa va storto, l'uva di quella vigna per diventare vino ci sarà soltanto 12 mesi dopo. Questo ha generato nei secoli la necessità di condividere conoscenze in misura molto più profonda e mi permetto di dire solidaristica di quanto avvenga in altri campi dell'agroalimentare, laddove è possibile semplicemente imparare dai propri sbagli e ricominciare il giorno dopo. Questa caratteristica sistematica del mondo del vino ha fatto detonare la scoperta di Pasteur dei microrganismi responsabili della fermentazione alcolica per cui dopo il 1860 è nata l'enologia moderna, vale a dire scientificamente fondata, e questo sapere, ampiamente pubblicato e diffuso, ha permesso la democratizzazione e lo straordinario innalzamento del livello qualitativo dei vini prima nel vecchio continente e poi in tutto il mondo».

“Non me la bevo”: un viaggio nella verità del vino con Michele Antonio Fino

La copertina del libro Non me la bevo di Michele Antonio Fino

Lei ha menzionato l'importanza di interpretare correttamente le informazioni riportate sull'etichetta di una bottiglia di vino. Tuttavia, spesso ci sono termini tecnici o denominazioni che possono risultare criptici per i consumatori comuni. Quali consigli darebbe a chi desidera comprendere appieno le etichette e fare scelte consapevoli?
«Il libro ha un intero capitolo che in poche pagine costituisce un vademecum per imparare a leggere e soprattutto per valutare in maniera appropriata le davvero tante informazioni obbligatorie che troviamo sull'etichetta di ogni vino che possiamo acquistare. Parlo di informazioni obbligatorie perché naturalmente, accanto ad esse, ci sono tutte le informazioni facoltative, riguardanti gli stili la storia delle famiglie o le caratteristiche dei territori che ogni produttore può ulteriormente andare ad aggiungere. Credo che sia molto importante per i consumatori capire che nonostante ci siano davvero molte informazioni queste si possono raggruppare in tre insiemi. Le informazioni che riguardano la tutela del consumatore, le informazioni che servono in una economia di mercato a distinguere vini diversi, e le informazioni rilevanti sotto il punto di vista sanitario. Dovremmo sempre dare la priorità a queste ultime».

Una delle tesi che lei espone nel libro è che il concetto di vino "naturale" non è necessariamente più autentico del vino trattato. Potrebbe spiegarci questo concetto e delineare le differenze tra i due tipi di prodotto?
«La questione è in realtà abbastanza semplice e intuitiva, perché attualmente il mondo del cosiddetto vino naturale non ha alcuna regolamentazione pubblica e nemmeno esistono standard condivisi da tutti i produttori su base volontaria. Per questo motivo, un produttore naturale che asserisca di seguire determinate procedure o di non praticare determinati trattamenti ha molto spesso dalla sua esclusivamente la propria parola. Questo significa, nei fatti, che può ben darsi il caso di produttori convenzionali che, senza ricorrere ad analoghe narrazioni, adottino però procedure simili e rinuncino ai medesimi trattamenti, semplicemente senza usare questa come leva di marketing. È importante, infatti, capire che distinguere il vino in tante sottocategorie è innanzitutto una esigenza di mercato, cui rispondono le scelte aziendali».

Si discute frequentemente della superiorità del "vino contadino" rispetto a quello industriale in termini di qualità. Tuttavia, nella sua opera, lei solleva interrogativi su questa convinzione. Potrebbe illustrarci le reali differenze tra il vino contadino e quello industriale, e le possibili conseguenze per i consumatori?
«Ho cercato di ricostruire tre diverse fasi semantiche dell'espressione vino contadino. Quella di Soldati era una vera e propria sfiducia nel vino con l'etichetta e nei processi enologici scientificamente fondati. Per Veronelli, vino contadino era essenzialmente il vino prodotto in maniera integrale da chi coltiva la vigna e ne trasforma il frutto senza mescolamenti con uve di altre provenienze. Dopo il 2000, vino contadino è diventato sinonimo di vino prodotto al di fuori dei grandi circuiti commerciali. Tecnicamente non esistono differenze di conoscenza che continuino a mantenere una diversità ontologica tra vino contadino e vino industriale. Questo poteva essere vero al tempo di Soldati e lui poteva ben preferire il vino fatto da chi non sapeva esattamente che cosa stesse facendo. Ma oggi la conoscenza enologica è a disposizione di tutti per cui il piccolissimo produttore ha a disposizione sostanzialmente gli stessi strumenti che, ovviamente con economie di scala diverse, sono a disposizione dei grandi gruppi produttivi. Per cui la differenza è essenzialmente nella volontà di presentarsi come amante o bevitore di vini contadini per dare di sé una idea politica al di fuori del mainstream».

Smitizzare il vino per apprezzarlo appieno: l'invito di Michele Antonio Fino

Ad un certo punto, lei evidenzia l'importante ruolo svolto dal marketing nell'instaurare certe leggende legate al mondo del vino. Potrebbe condividere con noi alcuni dei miti più diffusi, orchestrati dal marketing, e in che modo tali narrazioni possono condizionare le opinioni dei consumatori?
«I due luoghi comuni del marketing più diffusi e pervasivi sono tra di loro decisamente vicini. Innanzitutto, in Italia, esiste da circa 50 anni una tendenza a riallacciare produzioni modernissime a un passato mitologico e certamente glorioso. Questo nel mondo del vino è profondamente irrispettoso di come sono andate le cose che sono nettamente cambiate in poco più di 100 anni perché fino alla fine dell'Ottocento l'Italia è un paese produttore di vini consumati pressoché esclusivamente in loco, con qualità media bassissima, esportazione strutturata soltanto per i vini di Marsala, peraltro prodotti dagli inglesi, e assenza di distretti produttivi al di fuori della Sicilia occidentale. Il secondo mito collegato al primo è quello della immutabilità delle modalità di produzione. Poiché nel campo del cibo ogni richiamo alla artigianalità aumenta la disponibilità a pagare un prezzo più alto e in generale il gradimento del prodotto, nessun comunicatore commerciale del vino rinuncia alla suggestione di un legame tra i vitigni e le tecniche di oggi e quelli di un passato che nel migliore dei casi, quando c'è, è del tutto incomunicante con il presente».

Nel libro lei esplora le influenze culturali e sociali che modellano il mondo del vino. Potrebbe condividere con noi qualche esempio di come tradizioni e credenze locali hanno condizionato e guidato le pratiche vinicole in determinate regioni?
«Più che le credenze e le tradizioni locali ad avere dato forma ad alcune delle tradizioni produttive tuttora più feconde sono condizioni climatiche, politiche e di mercato. Per quanto riguarda le condizioni climatiche è appena il caso menzionare la Champagne e La Mosella di cui meravigliosi vini senza un clima repentinamente freddo, almeno fino ad alcuni anni orsono, non avrebbero probabilmente visto la luce e soprattutto non avrebbero fornito l'occasione della nascita di distretti industriali a tutto tondo. Per quanto riguarda le condizioni politiche, risulta assolutamente impossibile non citare la decisione del duca di Borgogna che nel 1500 impone la coltivazione, quale vitigno a bacca nera, del solo Pinot Nero a scapito del Gamay, molto più produttivo e per questo gradito ai contadini del suo feudo. L'obbligo di coltivare solo quell'uva a costretto i produttori della regione transalpina a dare vita ad un distretto che tuttora esprime il vertice mondiale di vini derivanti da quel vitigno. Per quanto riguarda le condizioni di mercato va necessariamente ricordato il Bordolese, la dove già 400 anni orsono si piantavano vitigni che risultavano più graditi ai clienti dei mercanti olandesi, britannici e francesi che già facevano esportazione di vini dal grande porto di Aquitania».

Uno dei temi centrali del suo libro è il concetto di "terroir" e l'influenza che il terreno, il clima e l'ambiente hanno sul carattere del vino. Come questi fattori influenzano la personalità e le caratteristiche di un vino, e come possono essere interpretati dai consumatori?
«Il concetto di terroir è un concetto olistico nel quale sono necessariamente presenti l'elemento climatico; l'elemento pedologico vale a dire quello proprio del territorio con le sue caratteristiche orografiche e geologiche; l'elemento vegetale caratterizzato dal vitigno o dai vitigni che in quel territorio si coltivano e infine l'elemento umano costituito dall'insieme delle conoscenze e delle pratiche che servono a produrre quel determinato vino. Il mix di questi fattori crea i terroir che per nascere ha bisogno , però, di una molteplicità di produttori, ovvero della nascita di un distretto. Diversamente infatti siamo davanti semplicemente all'attività pionieristica di uno o più grandi innovatori, i cui vini però rifletteranno molto di più proprio il genio di chi li crea di quanto non possano rispecchiare una tradizione locale di conoscenze e stili».

“Non me la bevo”: un viaggio nella verità del vino con Michele Antonio Fino

Il marketing del vino: tra leggende e realtà. Il libro di Michele Antonio Fino

Nel contesto attuale, dove c'è un crescente interesse per la sostenibilità ambientale, quali sono i progressi e le iniziative nel settore vinicolo che mirano a ridurre l'impatto ambientale della produzione di vino? E come possono i consumatori supportare queste iniziative attraverso le proprie scelte di acquisto?
«Il vino è un prodotto edonistico che da decenni non è più sulle nostre tavole per conferire un apporto calorico alla nostra dieta. Questo, a mio giudizio, implica la necessità che la produzione vitivinicola si preoccupi, in maniera anche maggiore rispetto ad altre produzioni alimentari, della propria sostenibilità. Oggi sono disponibili degli schemi di qualità riconosciuti dalle norme dell'Unione Europea come il biologico e accanto adesso esistono schemi di qualità basati su disciplinari che perseguono la sostenibilità produttiva sia di carattere privato, sia di carattere pubblico perché riconosciuti a livello di ministero dell'Agricoltura. I simboli di queste certificazioni si trovano sulle etichette e, auspicabilmente, a breve una direttiva anti greenwashing dell'Unione Europea farà sì che soltanto i loghi che corrispondono a produzioni certificate possano essere utilizzati in etichetta».

In “Non me la bevo”, lei ha discusso della crescente popolarità dei vini biologici e biodinamici. Potrebbe spiegarci le differenze tra questi tipi di vini e quali sono i benefici per la salute e l'ambiente associati al loro consumo?
«Agricoltura biodinamica e l'agricoltura biologica nascono come reazione ad alcune conseguenze negative dell'applicazione su larga scala dell'Agricoltura convenzionale o come si sente anche dire industriale tra gli anni '10 e gli anni '20 del Novecento. In particolare, gli effetti drastici determinati dalla natura meccanizzata e dalla disponibilità di fertilizzanti di sintesi avevano suscitato in diversi protagonisti della vita culturale del tempo una sostanziale sfiducia nella capacità dell'Agricoltura convenzionale di riformarsi per essere meno meccanicamente praticata e più aderente alle esigenze dei diversi territori. Tra i due metodi però non c'è mai stata sovrapposizione perché l'agricoltura biodinamica presume l'esistenza di forze spirituali che devono essere coinvolte nella conduzione agronomica anche se ciò non può trovare alcuna spiegazione scientifica. Viceversa, l'agricoltura biologica, si basa esclusivamente su conoscenze scientifiche relative alla fertilità del suolo e ai meccanismi di difesa dai patogeni delle piante, puntando ad un ridotto intervento ogni qualvolta ciò sia possibile. A partire dal 2012 in Europa abbiamo anche un disciplinare per vigneto e cantina del vino biologico mentre il vino biodinamico è il prodotto derivante da uve coltivate con agricoltura biodinamica, poiché non esiste una certificazione del processo di vinificazione…».

Considerando il panorama vinicolo globale, quali sono alcune delle regioni emergenti o dei vitigni meno conosciuti che meritano maggiore attenzione? E quali sono le caratteristiche distintive di questi vini che li rendono degni di nota?
«Nel contesto globale, il mercato del vino è decisamente maturo, vale a dire che le sue aspettative di crescere in termini di valore non si possono più basare su un aumento dei consumi da parte di coloro che già ne fanno uso né sull'apertura di mercati nuovi di zecca, dal momento che in ogni paese dove è lecito consumare alcolici, Il vino è presente. Dunque, occorre lavorare sulle nicchie E queste sono una caratteristica che deriva dalla storia d'Italia a beneficio di molti territori, anche tra quelli che oggi sottovalutiamo, nei quali continuano ad esistere vitigni poco noti. Ecco, i territori più promettenti oggi sono quelli in grado di offrire delle peculiarità enologiche tali da suscitare l'interesse e la curiosità dei consumatori. Dal mio punto di vista, questo assicura delle possibilità di resilienza della viticoltura Europea maggiori di quelle che si possono individuare nella viticoltura di paesi di più recente conversione alla produzione e consumo di vino.

Le innovazioni tecnologiche stanno influenzando sempre più il settore vinicolo. Come i nuovi mezzi stanno contribuendo a migliorare la qualità del vino o ad ottimizzare i processi di produzione?
«Fortunatamente l'innovazione tecnologica consente al vino due importanti cambiamenti negli ultimi anni. Innanzitutto è sempre più facile produrre vini per i quali si possa drasticamente ridurre la quantità di additivi e coadiuvanti tecnologici eventualmente necessari. La ragione di questo è che la strumentazione di cantina e soprattutto la catena del freddo sono diventate molto comuni. Questo consente di avere vini organoletticamente migliori senza bisogno di maquillage ma semplicemente perché è possibile trattare in maniera più rispettosa la materia prima fondamentale del vino che è l'uva. Dobbiamo sempre tenere a mente che fatto 100 il capitale enologico contenuto nell'uva, il massimo che si può ottenere in cantina è di preservarlo, mai di migliorarlo come invece popolarmente si crede. Ecco perché servono grandi uve per fare grandi vini ed è una credenza infondata che viceversa bastino le arti quasi magiche degli enologi. Il secondo ambito in cui la tecnologia migliora e migliorerà ancora la produzione enologica è l'ambito della sostenibilità ambientale della viticoltura perché a mano a mano che si diffondono strumenti diagnostici e anche banalmente capannine per la rilevazione metereologica, i trattamenti antiparassitari potranno essere ulteriormente ridotti a beneficio di una sostenibilità ambientale che viceversa solo alcuni decenni fa era veramente poco comune nella produzione del vino».

Il vino è da sempre associato alla cultura e alla convivialità. Quali sono le tradizioni o le cerimonie legate al consumo del vino che ritiene più significative o interessanti e come queste influenzano la percezione del vino considerato elemento di condivisione e piacere sociale?
«Il libro, ad onor del vero, non è un manuale per la scelta dei vini, per il loro perfetto servizio o per l'abbinamento. Però c'è un aspetto della convivialità del consumo di vino che nel libro è trattato. Gli inventori della dieta mediterranea, ovvero Ancel e Margaret Keys riportano il fatto che nelle popolazioni del sud Italia esistono abitudini di consumo del vino in quantità anche rilevanti durante i momenti di festa ma osservano di non avere trovato persone in stato di ubriachezza Durante quegli interminabili pasti domenicali a cui hanno assistito e aggiungono che quelle popolazioni non consumano liquori di sorta. Ebbene il consumo conviviale di vino a una caratteristica molto interessante dal punto di vista antropologico perché scoraggia l'abuso. Infatti, l'abuso di vino che porta alla ubriachezza Rende lo stare in compagnia con gli altri privo di interesse e d'altro canto il consumo da parte del gruppo stimola l'apprezzamento culturale della bevanda rimanendo entro limiti che sono definiti proprio dalla possibilità di continuare nell'interazione sociale. Tutto ciò non consente né di minimizzare né tantomeno di negare i problemi connessi al consumo di bevande alcoliche ma permette di riconoscere nella consuetudine alimentare collettiva, che include il vino, dei caratteri particolari».

Professore, a quali altri progetti si sta dedicando?
«Attualmente sto lavorando alla conclusione del progetto di ricerca nazionale dedicato al tema dell'origine del cibo che vede coinvolte cinque università e 45 ricercatori da tutto il il paese. Nella primavera 2025 i risultati dovranno essere pubblicati e quindi ci concentriamo su di essi».

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