Anni fa alcuni amici mi portarono in un ristorante ad Ariccia (in provincia di Roma), senza menu e che proponeva unicamente bucatini all’Amatriciana (foto in apertura). Ne ordinammo due giri. Quella fu la mia prima esperienza di ristorazione mono-food e ne rimasi sorpreso. A parte la convinzione di aver assaggiato la migliore amatriciana del pianeta (limitata ai miei primi 18 anni di vita), pur non avendo all’epoca alcuna esperienza nella ristorazione, pensai: questo è il futuro, non tanto riferito a quello specifico bucatino, quanto alla possibile diffusione di ristoranti specializzati in un solo prodotto, per proporlo meglio di chiunque altro. Ciò che mi sfuggiva era il fatto che quel futuro fosse già presente.
Ristorazione mono-prodotto: un modello già diffuso negli Usa
In Italia non erano ancora diffusi, ma negli anni ’90 i centri commerciali negli Stati Uniti già proponevano, nell’area dedicata al ristoro, quasi esclusivamente proposte mono-food. Le food court erano circolari, delimitate da chioschi con all’interno tavoli e sedute. Ma non c’erano McDonalds e grandi marchi, quanto piuttosto piccoli brand, quasi tutti con una sola proposta, dal chiosco dello steak-sandwich a quello dei burrito. Non credo affatto che quella fosse la rappresentazione virtuosa della ristorazione mono-food, perché non c’era lo stesso livello di qualità e autenticità del bucatino all’Amatriciana di Ariccia. Ma era comunque un buon inizio.
Dal successo alla standardizzazione dei format ristorativi
Nel tempo, anziché diffondersi, il modello è stato sostituito. Oggi, sia i centri commerciali come i centri delle grandi città, sono cannibalizzati dai grandi brand. Così come le nuove idee. Il futuro a cui va incontro una ricetta o un’idea ristorativa di successo, specialmente se facile da replicare, una volta raggiunto il successo, viene riprogrammato. Oggi un brand con due soli punti vendita (e da mezzo milione di fatturato ciascuno) verrà probabilmente acquistato da un gruppo. A gestire quel brand ci sarà un consiglio di amministrazione con l’obiettivo di fare aumentare fatturato e profitto. Ad oltranza. Passando da 2 a 100 store in due anni, in quei locali si passa dal cucinare all’assemblare.

Nel tempo il modello del mono-prodotto è stato sostituito dai grandi marchi
E passando da 100 mega brand a 10mila, tra qualche anno nel mercato “Terra” si andrà incontro all’appiattimento dei sapori…: “ma questo è dolce o pesce?”, “né l’uno né l’altro, signora, è Tiramisushi!”. Per fortuna, tale rischio è solo immaginario (almeno oggi). Esiste una galassia di laboratori, forni, pasticcerie, pastifici, pizzerie, ristoranti che, ottenuto il successo, lo gestiscono diversamente. E non ha nulla a che fare con l’accontentarsi, anzi: spesso si tratta di talenti che vivono la propria idea di cucina e ristorazione con trasporto, che puntano sempre a migliorarsi ed evolversi al punto tale da cambiare e fare evolvere l’arte stessa. Per la pizza, giusto per fare due esempi, si pensi a Franco Pepe e a I Masanielli. Così come i tanti locali dal concept o menu unici e d’avanguardia ubicati in ogni angolo del Paese. A proposito, segnalo il grande successo del recente La Rue a Milano, con in menu solo entrecôte.
La food court dei sogni (con ristorazione mono-prodotto)
Al netto di tutto ciò, per mantenere la qualità alta, bisogna farsi carico di più alti costi, che inevitabilmente fanno aumentare i prezzi. E con l’attuale perdita della capacità di spesa, una fetta sempre più ampia di mercato continuerà a preferire i grandi brand dal prezzo e dal sapore ridotto. Per bilanciare l’ultima riga di pessimismo cosmico, descrivo la mia food court utopica: innanzitutto, è all’aperto. È delimitata da diverse cucine-laboratorio specializzate, ognuna su un monoprodotto e di livello “bucatino d’Ariccia”. Tavoli e sedute, con predominanza di tavoli sociali, sono al centro, come nelle prime food court ma… con servizio a tavola.
I camerieri non sono professionisti, ma intendono diventarlo. Vengono, infatti, ben formati e meglio pagati, gestiscono tutti i mono-menu e sono retribuiti da tutte le cucine commerciali che lì operano. Resteranno il tempo necessario per diventare bravi, poi proseguiranno il loro percorso altrove. Non c’è bisogno di prenotare, l’area è ampia e, se non basta, si amplia ulteriormente. Lo spazio è pubblico e tutti sono benvenuti. I brand, pur proponendo cucina di qualità, sono perlopiù sconosciuti e, ottenuto il successo, traslocheranno e si espanderanno altrove, lasciando spazio e visibilità a nuovi protagonisti.

Un rendering della food court dei sogni
La food court è gestita da un’associazione no-profit di professionisti di settore, rimborsati dagli enti pubblici coinvolti e qualsiasi “profit” rimanente dalle royalty ricevute dai singoli brand presenti andrà reinvestito e ridato alla comunità. I bisognosi potranno così far richiesta di un pasto “sospeso” da qualsiasi menu della food court, ogni giorno, e consumarlo lì, comodamente, accanto a lavoratori, studenti, pensionati, famiglie, turisti e a chiunque non disprezzi la contaminazione, sia umana che culinaria. Infine, in quella food-court / incubatrice di sogni / centro di ricerca / accademia di alta formazione / foro d’accoglienza inclusiva, seppur all’aperto, ci sarà il sole anche quando piove.
Per chi fosse interessato, Giovanni Di Tomaso è autore di "In Vino Business" dedicato alla gestione strategica della wine list nella ristorazione.