La schiscetta è diventata il nuovo competitor della ristorazione italiana. Altro che moda salutista o il solito “meglio farselo da sé”: oggi è una scelta economica obbligata che sta ridefinendo, sotto traccia, il mercato più antico e più fragile del settore, quello del pranzo di lavoro. È qui che bar, trattorie e tavole calde vedono evaporare una fetta di pubblico che non tornerà facilmente, perché lo spartiacque non è più il gusto, ma il budget. E quando la quotidianità salta, salta anche l’equilibrio di tutto il comparto. A quantificare il fenomeno arriva uno studio di Bravo, fintech specializzata nella gestione del debito, che mostra quanto il pranzo fuori pesi ormai sul portafoglio: portarsi il pasto da casa può far risparmiare fino a 3.200 euro l’anno. Una cifra che spiega con chiarezza perché sempre più lavoratori scelgano la schiscetta come unica strategia sostenibile nel bilancio mensile.
Il costo della pausa pranzo e l’impatto sul portafoglio
Lo studio mette a confronto un pasto semplice consumato fuori - un piatto di pasta, una bottiglietta d’acqua e un caffè - con lo stesso preparato a casa. La differenza è netta: al Nord quel pranzo costa in media 16 euro, al Sud 13, mentre farselo da soli richiede appena 1,7 euro. È questa forbice a generare un risparmio di 263 euro al mese, quasi 3.200 euro in un anno.

Prepararsi il pranzo a casa può far risparmiare oltre 3.000 euro l’anno
In regioni come Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria e Trentino-Alto Adige si sfiorano i 3.500 euro annui, un dato che diventa ancora più rilevante se si considera il costo della vita delle grandi città. E ogni euro risparmiato dal lavoratore è un euro che non entra più nelle casse di quei locali che dalla clientela del mezzogiorno hanno sempre tratto la loro principale fonte di stabilità.
Un’Italia spaccata fra stipendi, prezzi e abitudini
La geografia del risparmio racconta un Paese diviso non tanto per il costo della ristorazione, quanto per il diverso potere d’acquisto. In Puglia, Sicilia, Sardegna, Molise e Abruzzo il risparmio potenziale scende sotto i 2.800 euro annui perché i prezzi medi del pranzo fuori sono più bassi. Al Nord, invece, dove un pasto può costare anche 16 euro, la stessa scelta permette di mettere da parte fino a 3.630 euro l’anno: è il caso di Milano, Monza-Brianza, Parma, Modena e Bologna.
Milano, con una retribuzione lorda mensile di circa 2.780 euro - la più alta d’Italia - dimostra che il costo del pranzo resta significativo anche per chi guadagna più della media: «rappresenta - segnala la ricerca - il caso emblematico di come il peso della spesa alimentare quotidiana resti rilevante anche con stipendi più alti». Se però si passa dal valore assoluto al peso che il pranzo fuori ha sulla busta paga, la classifica cambia in modo radicale. Qui emergono le città dove lo stipendio è più basso e il pranzo fuori incide molto di più sul bilancio mensile. In testa c’è Vibo Valentia, dove prepararsi il pasto a casa significa risparmiare il 22,3% del proprio stipendio. Subito dopo compaiono Grosseto (21,5%) e Imperia (21%).
La crisi del pranzo di lavoro è sotto gli occhi di tutti
Sono numeri che raccontano un fenomeno evidente: la ristorazione del mezzogiorno sta vivendo un’erosione lenta ma costante. E non è un problema nato oggi. Il Covid aveva già indebolito profondamente il settore: mesi di smart working, uffici semivuoti e ritmi spezzati hanno privato bar, trattorie e tavole calde del loro pubblico naturale. Molti locali che vivevano quasi esclusivamente della pausa pranzo non si sono mai ripresi del tutto; alcuni hanno cambiato modello, altri hanno chiuso, altri ancora hanno cercato riparo in menu ridotti o in un incremento delle consegne.

Tra smartworking, rincari e meno budget, bar e ristoranti vedono il pranzo di lavoro crollare
Cinque anni dopo, però, la situazione si è complicata ulteriormente. I prezzi delle materie prime sono cresciuti, l’energia ha reso più pesanti i costi fissi e gli stipendi sono rimasti praticamente fermi. Questo crea una dinamica perversa: i locali avrebbero bisogno di alzare i prezzi per restare a galla, ma i clienti non sono più in grado di sostenerli; e chi prova a mantenere prezzi competitivi finisce spesso per lavorare con margini che non permettono investimenti né stabilità. Il risultato è che il pranzo di lavoro - un tempo la fascia più affidabile della giornata - è diventato un punto debole dell’intero comparto.
Il pranzo da casa non è il problema: è il sintomo di un sistema in crisi
Dentro questo quadro di rincari, stipendi immobili e sale sempre più vuote, il punto non è demonizzare chi si porta il pranzo da casa: è legittimo, logico e in molti casi inevitabile. Il problema è che, mentre famiglie e lavoratori fanno i conti con un potere d’acquisto che si restringe, la ristorazione di servizio - quella che ha tenuto insieme per decenni la vita degli uffici, delle fabbriche, dei quartieri - rischia di diventare un settore residuale. E se continuiamo a parlarne solo come “abitudine di consumo”, perdiamo di vista l’impatto industriale: meno coperti a mezzogiorno significa meno imprese solvibili, meno posti di lavoro qualificati, meno presidio urbano. In pratica, un pezzo d’Italia che si assottiglia. La schiscetta fa risparmiare, certo: ma, come detto, ogni euro trattenuto a casa è un euro che non circola più in un comparto già sotto pressione. E se non affrontiamo seriamente il nodo prezzi-salari-produttività, il pranzo da casa rischia di essere la spia luminosa di un sistema che non riesce più a sostenere nemmeno la sua routine più semplice.