Marina di Grosseto, fra cielo e mare. Nella terrazza di Gabbiano 3.0 le onde del Tirreno stordiscono i sensi. Per dirla con le parole di chef Alessandro Rossi, è «un ristorante a picco sul mare, che però è in piena Maremma». Il paesaggio inondato di odore di salsedine fa da sfondo al profumo dei pomodori del suo orto.

La sala del ristorante Gabbiano 3.0
È una cucina sospesa fra memoria e avanguardia, tra l’accento agreste della Maremma e il sussurro salino del mare. E accanto a lui, anche in sala, c’è chi sembra fatto dello stesso legno dei gusti sinceri. Marco De Signoribus è il giovane sommelier e direttore di sala, al terzo anno al Gabbiano 3.0, con la sua vocazione all’ospitalità genuina.
Dal nonno all’orto: la cucina che cresce per davvero
Alessandro Rossi è qui da sei stagioni. Sei estati affacciato sul porto turistico, con la linea dell’orizzonte come collega di lavoro e l’orto come compagno quotidiano. Non si direbbe un tipo da grandi dichiarazioni, e infatti non ne fa. Preferisce raccontare una passata di pomodoro della nonna, quella che da bambino aspettava tutta la mattina per mangiarla sul pane fresco. «Una passata impressionante», dice, come se fosse ancora lì a leccarsi le dita. Oppure ricorda le giornate passate con il nonno a Colle Val d’Elsa (Si), a seminare, ad annusare la terra umida, a capire le stagioni.

Lo chef Alessandro Rossi
È tutto lì, secondo lui. Quello che oggi finisce nel piatto è una trasposizione concreta di ciò che ha visto fare con metodo, pazienza e gusto per le cose fatte per bene. Quando parla del suo orto, non dice mai “produciamo” o “abbiamo pensato di inserire”. Dice semplicemente: «per noi la stagione di un prodotto inizia quando quel prodotto l’abbiamo in orto». E aggiunge: «può sembrare banale, ma se non ho le zucchine in orto, io non le metto in carta». Nessuna rigidità militante. Solo la constatazione che quel prodotto, lì e in quel momento, ha senso perché esiste, cresce, respira lo stesso clima della cucina.
Un orto botanico in carta: erbe, fiori e insalate che diventano piatti
L’orto è un progetto agricolo vero, in collaborazione con Simone Moschini dell’azienda Cavolo a Merenda di Colle Val d’Elsa. Insieme selezionano sementi da tutto il mondo: spezie, fiori, piante sconosciute ai più. Una parte dell’appezzamento è riservata a varietà esotiche, ma l’approccio è tutt’altro che esotico. Serve per costruire piatti inediti e coerenti, come l’insalata dolce, uno dei dessert più iconici della carta. «Ci abbiamo lavorato quattro anni», racconta, «abbiamo raccolto semi da ovunque e li abbiamo fatti crescere, adattandoli. Oggi l’insalata è fatta solo di erbe acide, balsamiche, zuccherine. È un piatto, ma anche un percorso. Un’idea botanica che abbiamo cucinato insieme».

L'insalata dolce
Anche le aromatiche hanno un ruolo costante nella sua cucina. Crescono accanto agli ortaggi, si infilano nei brodi, nelle creme, negli abbinamenti. Fanno corpo. «Quello che per noi è di stagione, lo è quando ce l’abbiamo tra le mani. Se il basilico spunta a fine giugno, per me comincia lì la sua stagione, anche se altri lo usano da aprile».
Riconoscibilità prima di tutto: «nel piatto c’è quello che diciamo»
La coerenza è una parola che torna spesso nel suo vocabolario. «La mia è una cucina riconoscibile», spiega, «perché se ti diciamo che c’è il pomodoro, tu il pomodoro lo senti». Nessuna giostra, nessun enigma da risolvere. «Non mi piacciono i piatti che creano un punto interrogativo», ribadisce. Il concetto non è il protagonista, lo è il sapore. Ma Rossi non gioca a fare il rassicurante. I suoi piatti sono costruiti con tecnica e studio. Semplicemente, si fanno comprendere, perché sono pensati per essere compresi.

Piccione, zafferano, miele e pepe
«Mangiare bene e stare bene»: l’idea di ristorazione secondo Rossi
L’idea di comfort è fondamentale. Da cliente, confessa, cerca esattamente la stessa cosa, «una serata in cui si mangia bene e si sta bene». Può essere un piatto gastronomico, oppure una pasta al pomodoro. L’importante è che sia fatto bene. Per lui, «anche la cosa più semplice, se sbagliata, rovina la serata».

Rana pescatrice,borragine,erba cipollina e gota
E allora anche nella sua cucina non c’è margine per quel tipo di sbavature che scivolano nella pretesa. Il suo è un fine-dining con i piedi piantati in terra, letteralmente. Perché parte dal campo, dall’orto, e si misura con la realtà. Il piatto dev’essere leggibile, ogni passaggio della degustazione ha un senso organico. Lo stesso senso organico che ha guidato, nel tempo, la sua carriera.
Dagli esordi alla stella: la traiettoria di uno chef toscano
Ha cominciato a quattordici anni, nelle cucine vicino casa. Poi l’incontro con Stefano Ciavatti è stato il passaggio chiave.«Mi ha dato tantissimo, me lo porto ancora dentro», dice. Poi Alessandro Dal Degan ad Asiago (Vi), la prima stella Michelin alla Leggenda dei Frati a Firenze, l’esperienza in Veneto e infine il ritorno in Toscana, a Marina di Grosseto. Da sei anni è al Gabbiano 3.0, dove la maturità si misura nel rapporto tra la costa e la campagna, tra il basilico del brodo e l’aria di mare, tra la calma apparente e l’energia della materia prima.

Lo chef Alessandro Rossi racconta il prosciutto di tonno usato per i tortellini
Menu d’estate, tra orto e mare: «i clienti tornano, e questo ci basta»
Il territorio è tutto. Ma è un territorio costruito, selezionato e riletto. Non basta essere in Maremma per sentirla nel piatto. Bisogna farla parlare nella lingua giusta. Per questo, quando descrive i nuovi piatti in arrivo, parte dalla passeggiata nell’orto. «All’inizio del menu estivo ci saranno pomodoro, zucchine, melanzane. Perché è quello che in quel momento c’è». Ma occorre averli addosso, quei profumi. Occorre averli visti crescere, annusati sotto il sole, toccati ancora pieni di terra.

Amuse bouche
E mentre in tanti parlano di crisi del fine dining, lui osserva: «i clienti tornano, e questo ci basta per capire che la direzione è giusta». Nessuna ansia da prestazione internazionale. Solo una cucina costruita con intelligenza e umiltà, in equilibrio tra estetica e sostanza.
Un abbraccio di mare tra i pici e i molluschi
I pici tiepidi con cozze, scampi, cannolicchi, brodo al basilico e aria di mare sono uno dei piatti del menu estivo. I pici sono gli spaghettoni toscani fatti a mano, qui serviti nella loro stessa semplicità ma irrorati di umori marini. Sì, perché anziché richiamare un ragù di terra, il piatto porta i profumi dell’acqua salata. I pici vengono tuffati in un brodo leggero di basilico (un brodo da insaporire come quello delle minestre di una volta, profumato di basilico fresco come un gelato verde), che li mantiene umidi, setosi e tiepidi.

Pici tiepidi, molluschi, scampi, basilico e aria di mare
Sopra trovano posto i molluschi (i cannolicchi, le cozze) e i crostacei, disposti quasi come offerte sul suolo appenninico. L’aria di mare è una schiuma finissima al sapore di iodio e alghe. Se prima eravamo sulle dune dei nostri ricordi, ora ci ritroviamo con un piede nella pineta e l’altro sulla riva, in bilico sull’aroma di mare e basilico. Eccola la cifra di Rossi. Riconoscibilità del luogo d’origine, declinata con la sorpresa dell’abbondanza marina.
Il tortellino che scambia il prosciutto con il tonno
Un piatto che difficilmente uscirà dai menu, invece, è quello che parte dall’idea rassicurante del tortellino “panna e prosciutto”; ma la svolta è fin dal nome. Dentro quel piccolissimo involucro di pasta, l’Emilia cambia mare. Il ripieno è una genovese di tonno. Rossi ci incorpora anche panna di bufala, così da far capolino al comfort delle paste filate, pur spostando il punto di gravità verso la costa. Sul guscio sottile e perfettamente all’onda arancione, trova posto una crema acida di cipolle latto-fermentate, che controbilancia con la sua lieve acidità il grasso della panna.

Tortellini panna e prosciutto
Infine, viene servito con piccole fette di ventresca di tonno affumicato (il prosciutto di tonno, affumicato e pepato) a sostituire il tradizionale prosciutto crudo che ci si aspetterebbe. Il risultato è un tortellino che sa di mare ma anche di tradizione. La sensazione e di ricchezza e rotondità. Un ripieno cremoso e sapido, poi un tocco fresco di acidità, e infine quel lieve fumo che ricalibra la parola “prosciutto”. Storia di una reinterpretazione che ama giocare con gli stereotipi per sorprendere chi mastica ancora l’idea del “tortellino di ogni giorno”.
La sala, giovane e sincera
Però nessuno dei piatti avrebbe senso senza la parvenza di umanità che li circonda. Ed ecco entrare in scena il direttore di sala (e sommelier rampante) Marco de Signoribus, classe '99, un volto da bravo ragazzo e (all’occhiata) la stessa voglia di «stare bene e far stare bene» che ha il suo chef e che condivide, in sala, assieme alla collega Beatrice Bartoletti. De Signoribus fa capire che al Gabbiano 3.0 «bisogna essere sé stessi, non mettere maschere». Per lui una cena è una conversazione; lo dice mentre spiega che alla fine «l’accoglienza è tutto».

Marco de Signoribus
I giovani in sala possono sembrare un valore anomalo in questo segmento di fine-dining, ma lui ne approfitta in parallelo per sperimentare anche nel bicchiere. Ad esempio, sfida i tabù ordinari sul Vermentino (abitualmente bevuto un po’ giovane) selezionando versioni più mature, attendendo qualche anno in cantina prima di stappare, perché anche sui vini la riconoscibilità ha il suo significato. Quando il maître accenna alla sua carta dei vini, spiega che si sente fortemente in sintonia con l’impronta dello chef; deve essere un abbinamento fedele a quei “sapori riconoscibili”. Sottolinea che vuole «imporre la riconoscibilità del territorio nella carta dei vini», proprio come Rossi cerca di fare nei suoi piatti.

Gli interni del ristorante Gabbinao 3.0
Marco seleziona piccoli e medie produttori italiani. Racconta di passare giorni interi a cercare etichette davanti alle cantine, ascoltare le storie personali dei vignaioli e poi trasferire quella narrazione in menu. È un’ossessione: «raccontare il contenuto del contenitore», dice. Se lo chef tocca con mano il dialetto del mare fin dentro la pasta fresca, il sommelier decide di accompagnare il racconto con calici ariosi che sembrano avere anch’essi il profumo delle frasche vicine. Quel che ne viene fuori, oltre ad essere un abbinamento cibo-vino ben riuscito, è un vero “patto di ospitalità”.
Il contrario dell’effetto speciale
Diventa dunque impossibile non riflettere proprio sul senso più profondo di questa parola stra-abusata. “Ospitalità”. Il Gabbiano 3.0 sembra volerci dire che l’avanguardia è benvenuta, ma solo se porta con sé familiarità e calore. Un vecchio proverbio dice che il miglior piatto scodellato è quello condito dal conforto di sentirsi a casa. Cosa mai diranno i gourmet snob di tant’inarrestabile familiarità? Poco importa. Perché a Marina di Grosseto, in fondo, il vero ingrediente segreto è l’accoglienza. Una ricetta spartana e sovversiva, ma assolutamente riconoscibile.