Se oggi i giovani si allontanano dal vino e dalla sala, è anche perché mancano i momenti di convivialità familiare e pesano le illusioni create dai social. Giovanni Annunziata rappresenta l’eccezione: cresciuto con le bottiglie sempre presenti a tavola e una precoce passione per la ristorazione, a 27 anni è food & beverage manager del gruppo milanese Ribot (di proprietà della famiglia Frediani e che conta tre ristoranti in città), tra i 100 sommelier selezionati da Winelist Italia e presto Cavaliere dello Champagne. La sua storia dimostra che, con gavetta e sacrifici, la sala può ancora essere una scelta di vita. Con lui abbiamo parlato di ristorazione, di vino e di futuro, partendo da una certezza: «Il nostro lavoro è rendere felici le persone che si siedono a tavola».
Dalla ragioneria alla sala: una scelta di vita
Dietro questo percorso, come annunciato, c’è una scelta precisa, maturata già da ragazzo. «Ho sempre cercato di raccontare che la mia è sì una grande passione per il vino, ma prima di tutto è una passione per la ristorazione» spiega. Nonostante gli studi in ragioneria e non all’alberghiero, a 16 anni Giovanni capisce che la sua strada non è quella di un ufficio, ma di una sala piena di persone. «All’inizio sognavo un pub o un bar, perché erano i locali che frequentavo. Poi mi sono detto: se continuo il percorso di economia porto comunque a casa conoscenze che mi serviranno, intanto però posso cominciare a lavorare e a farmi esperienza». Così arrivano i primi impieghi, dal bar sotto casa fino ai turni estivi da cameriere, un apprendistato fatto di mansioni semplici ma formative per entrare nel mondo che stava inseguendo.

La sala del ristorante Ribot di Milano San Siro
Il salto vero avviene a 18 anni, con l’ingresso al Ribot di Milano San Siro. «Lì mi sono fatto travolgere dalla ristorazione, il sogno è cambiato: non più un locale qualsiasi, ma l’idea di avere un ristorante vero e proprio». È anche in quella fase che il vino diventa qualcosa di più di un’abitudine familiare. Cresciuto tra Milano, Conegliano (Tv) e Ottaviano (Na), Giovanni porta con sé una memoria domestica fatta di bottiglie sempre in tavola: «Era convivialità, era sentirsi un po’ più grandi. Per me è stato naturale trasformare quella passione in uno strumento di lavoro, un modo per crescere e per dare ancora più valore all’esperienza dei clienti».
La gavetta e i giovani: tra illusioni e realtà
Il tema della gavetta è centrale, soprattutto quando si parla di nuove generazioni. Giovanni, che oggi ha 27 anni, si sente ancora parte di quella categoria e non ama i luoghi comuni che spesso le vengono attribuiti. «Vengo ancora messo spesso nel calderone dei giovani, e la cosa mi fa piacere. Però credo che troppo spesso si guardi al tema come a un problema generazionale, quando in realtà è l’ambiente attorno a noi a essere cambiato». A suo avviso, più che la mancanza di sacrificio, pesa il contesto sociale ed educativo.

Giovanni Annunziata, food&beverage manager del gruppo Ribot
«Siamo una società che impone percorsi formativi sempre più lunghi, illudendo i ragazzi che questo dia automaticamente dei vantaggi nel mondo del lavoro. Ma più tardi si finisce di studiare, più difficile diventa iniziare davvero a fare esperienza». A complicare le cose c’è anche l’influenza dei social, che alimentano aspettative spesso irrealistiche: «I ragazzi sono bombardati da messaggi che ti dicono che la cosa più importante sei tu e il tuo tempo. Sono concetti veri, ma portati all’estremo creano l’illusione che fare soldi sia semplice e immediato, che sia l’unico obiettivo da inseguire. Invece manca la dedizione, manca la capacità di fare davvero gavetta». Per Giovanni, il nodo non è tanto la voglia dei giovani, quanto la pressione di un contesto che spinge a bruciare le tappe.
La vera emergenza: mancano figure qualificate
Ed è proprio questo contesto a rendere ancora più evidente un’altra criticità: la mancanza di figure preparate. «La difficoltà non è tanto trovare personale, perché di candidature ce ne sono e anche molte, ma trovare personale qualificato» sottolinea Giovanni. Una carenza che, a suo avviso, ha radici precise: «Il nostro è un settore dove la formazione è debole, dove manca informazione, e questo si lega anche a un contratto nazionale vecchio, pensato su orari d’ufficio e non da ristorazione. Così non tutela né il dipendente né l’imprenditore e finisce per penalizzare entrambi».
Un paradosso, se si pensa che l’Italia è conosciuta ovunque per il cibo e il vino, ma spesso incapace di difendere davvero la propria identità. «Abbiamo locali in centro a Milano che servono pizza surgelata spacciandola per italiana, oppure piatti con la panna per compiacere il turista. Così ci svendiamo, quando invece dovremmo essere i primi a difendere il nostro brand». In questo contesto, convincere i giovani a scegliere la ristorazione diventa ancora più complesso: «Non è un lavoro che ha grande appeal, perché ti chiede di esserci nei momenti in cui gli altri riposano. Forse non sappiamo raccontarlo abbastanza, ma alla fine il nostro compito è regalare emozioni. Siamo noi gli artefici della felicità di chi si siede a tavola».
Passione e regole: la chiave per formare i ragazzi
Per accompagnare i giovani dentro questo mestiere, secondo Annunziata serve prima di tutto un cambio di mentalità da parte degli stessi professionisti. «Dobbiamo bloccare ogni tipo di pregiudizio verso i giovani, altrimenti non riusciremo mai a portarli al passo successivo. Se partiamo prevenuti, la partita è già chiusa». Il punto, spiega, è trovare un equilibrio tra due elementi che sembrano opposti ma che in realtà procedono insieme: passione e regole. «I ragazzi devono avvicinarsi a questo lavoro con amore, perché solo se metti passione ricevi indietro dal cliente quella gratificazione che ti fa reggere i sacrifici. Ma accanto alla passione servono regole, perché la ristorazione non è un lavoro che può fare chiunque, anche se non richiede lauree o diplomi specifici. È un mestiere che merita rispetto, e sono le regole di base che fanno la differenza».

La regola dei tre strumenti del cameriere
E cita esempi concreti: «A me, a 18 anni, hanno insegnato che un cameriere deve sempre avere con sé un accendino, una penna e un cavatappi. Sembra banale, ma sono strumenti che ti serviranno sempre. Oggi invece vedo ragazzi che non hanno neanche un accendino in tasca. Non è questione di fumare o meno: è questione di professionalità». E qui, i social possono diventare un alleato, se usati bene. «Internet è un mezzo potentissimo, con lati positivi e negativi. Credo che i video di chi mostra la materia prima o racconta i vini possano creare attrazione: al momento servono più a incuriosire i clienti che a portare nuovi lavoratori, ma sono comunque un primo passo. Alla fine però non dobbiamo dimenticarci qual è l’obiettivo: offrire il prodotto migliore alla clientela, non avere il vino più esclusivo o la carne più rara. Questo è il messaggio che deve passare anche sui social». Un paradosso, sottolinea, è che lui stesso i social non li usa: «Ho solo LinkedIn, che utilizzo per lavoro. Quindi non mi sento di dare "ricette" definitive, ma se usati con intelligenza credo possano aiutare anche a restituire appeal alla ristorazione».
Giovani e vino: un legame che si sta perdendo
Un tema che si intreccia inevitabilmente con i giovani è anche quello del vino, sempre meno presente nelle loro abitudini di consumo. «Ho una teoria un po’ estrema - ammette Annunziata - ma credo che l’allontanamento dei ragazzi dal vino derivi anche dall’allontanamento dalla famiglia. Io mi sono avvicinato al vino grazie ai momenti familiari, che erano una costante della mia vita. Oggi invece si passa poco tempo a tavola insieme: mancano convivialità e rituali, manca quel gesto che per me era importante, come quando il nonno ti versava il primo goccino per farti sentire più grande».
Da questa riflessione nasce anche la sua idea di come dovrebbe evolvere il ruolo del sommelier. «Oggi viene visto sempre più come consulente esterno, ma io vorrei che tornasse a essere un consigliere dentro il ristorante, presente durante il servizio e vicino al cliente. Il sommelier non deve incutere timore: capita spesso che il cliente aspetti che se ne vada per ordinare dal cameriere, ed è il segno che c’è ancora diffidenza. All’estero ho visto un approccio diverso: la clientela internazionale ama farsi consigliare, quella italiana è più sospettosa, forse perché pensa che tu voglia vendergli qualcosa di più caro. In realtà il nostro ruolo deve essere un altro: trovare le soluzioni migliori in base ai gusti e alle esigenze di ciascuno, dando lo stesso valore a chi spende tanto e a chi spende poco».
Un vino più accessibile, una ristorazione più inclusiva
Un cambio di passo che, per Annunziata, riguarda anche il modo in cui il vino viene presentato e venduto. «Per renderlo davvero accessibile bisogna smettere di far credere che sia buono solo se costa centinaia di euro. In Italia i margini sull’alcol sono alti, e capisco che in un periodo di spese crescenti - tra materie prime, affitti ed energia - rappresentino un sostegno importante. Ma se vogliamo avvicinare i giovani e un pubblico più ampio, dobbiamo offrire soluzioni più semplici e alla portata di tutti: bottiglie magari meno note, ma di qualità, senza sentirci obbligati a costruire attorno a ogni etichetta un racconto complicato o intoccabile».
La stessa concretezza la mette quando parla ai ragazzi che aspirano a lavorare nella ristorazione. «Il consiglio che do sempre è di tapparsi un po’ le orecchie. La parte più difficile non è fare questo lavoro, ma farlo accettare da chi ti sta vicino. Io stesso sento spesso la mia famiglia ricordarmi che lavoro nei giorni di festa, ma è la natura di questo mestiere: essere presenti quando gli altri si riposano. Il rischio è che pesi più a chi ti è accanto che a te. Bisogna essere pronti a rinunciare a momenti importanti, a saper bilanciare vita privata e lavoro, a dare il giusto peso a entrambe le cose».

La chiave per formare i ragazzi? Per Annunziata, passione e regole
Eppure, nonostante i sacrifici, Annunziata non vede solo rinunce. «È vero, passo poco tempo con la mia famiglia, ma in un locale come il nostro ho clienti che tornano spesso e che sono diventati quasi una seconda famiglia. Con loro condivido traguardi e progetti, e questo crea un senso di appartenenza enorme. Vale anche per lo staff: sono le persone con cui trascorro la maggior parte del tempo, quelle che alla fine ti fanno sentire a casa». È un equilibrio particolare, ammette, fatto di ruoli diversi ma intrecciati: «Loro sono seduti a tavola a spendere, io in piedi a servirli, ma alla fine diventa un rapporto di fiducia e condivisione».
Proprio questa dimensione lo porta a guardare con ottimismo al futuro del settore. «La ristorazione è un comparto aperto a tutto, in continua evoluzione. In Italia siamo forti e preparati, ma all’estero ci sono strutture gigantesche che stanno iniziando ad arrivare anche da noi. Ci sono mille posizioni e mille possibilità di carriera. Ed è un settore in crisi di personale con competenze: basta poco impegno per emergere». La ricetta, però, resta sempre la stessa: «Tanto sacrificio, tanto tempo e dedizione. Ma se ti appassiona davvero, le soddisfazioni che arrivano possono essere immense».
Senza sala non c’è futuro per la ristorazione italiana
Insomma, la testimonianza di Giovanni Annunziata riporta al centro un tema clou: la sala non è morta, ma paga il prezzo di una ristorazione che non ha saputo valorizzarla. I giovani non mancano, ciò che manca è una formazione adeguata, un contratto capace di tutelare davvero chi sceglie questo mestiere e un racconto capace di restituirgli dignità. Solo così si potrà ridare futuro a un comparto che è parte integrante della nostra identità, insieme al vino e alla cucina italiana. Italia a Tavola continuerà a difendere e raccontare questa visione, perché senza sala non c’è vera ospitalità.