«Mi piace fare vino perché è sempre una sfida, e la bellezza di questo lavoro è che non si ha mai la certezza di quello che si produce». È quanto ha affermato
Paolo Panerai (
nella foto, a destra), patron di
Castellare di Castellina, durante la serata evento presso la Sala delle Vigne del ristorante
Da Vittorio a Brusaporto (Bg), dove ha avuto luogo il terzo incontro sulle eccellenze vitivinicole in collaborazione con il
Seminario Veronelli.
Guidati dalla sapiente bravura di Andrea Bonini, direttore del Seminario Permanente Veronelli, e di Andrea Alpi, sommelier ed esperto di didattica della degustazione, la serata ha permesso di vivere una verticale d’emozione unica nel suo genere, con la degustazione di 5 annate de “I Sodi di San Niccolò”, dal 2002 al 2011. Il tempo come carattere distintivo delle varie annate.

Tra il grande Luigi Veronelli e Castellare di Castellina, esiste un forte legame, professionale e umano, quasi indissolubile. Fu il grande intellettuale del ‘900 a suggerire a Panerai di legare il nome del vino al territorio. Le vigne che danno vita a questo stupendo vino poggiano su un terreno duro, sodo, con più scheletro terroso e sono situati vicino alla chiesa di San Niccolò: da qui “I Sodi di San Niccolò”, nome con cui negli anni Ottanta fu battezzato questo Igt Toscana, fortemente voluto dal grande Veronelli.
Abbiamo parlato di sfida. Produrre vino in un territorio unico è una sfida quotidiana, una sfida contro le molteplici variabili cui far fronte per ottenere il massimo in quest’attività: la natura con le sue mutevoli dinamiche che influenzano il ciclo produttivo, l’uomo dalle cui scelte dipendono le caratteristiche del prodotto finale e il mercato che giudica, apprezza e critica il vino che viene commercializzato.
Una sfida l’azienda toscana l’ha già vinta: I Sodi di San Niccolò è stato il primo vino italiano a entrare nella Top 100 dei migliori vini del mondo della famosa rivista
Wine Spectator, piazzandosi al 6 posto (95/100) nel 1988 riconfermandosi nella lista anche l’anno dopo. La cui prima commercializzazione avvenne nel lontano 1979, anche se la prima esclusiva etichetta nacque due anni prima nel 1977.
Il legame del vino con il territorio è ancora più forte se analizziamo il contesto paesaggistico in cui ci troviamo. La Toscana con la sua biodiversità, ricca di vigneti e ulivi ma anche di prati e boschi, elementi molto importanti per il ciclo produttivo vinicolo. La zona del Chianti Classico, situata in zona collinare tra Firenze e Siena, chiusa a ovest dalla Valle dell’Elsa e dalla Val di Pesa ed a est dalla Val D’Arno tra Firenze e Arezzo, è caratterizzata da suoli di Alberese (arenaria) e Galestro (scisti) e si espone ad un altezza che varia da 250 a 800 m slm. Il clima in estate è molto siccitoso e rovente con punte fino a 35 gradi mentre l’inverno porta precipitazioni fino a 650-950 mm di acqua l’anno.
La cena ci riporta in terra bergamasca e assaggiamo in apertura Gnocchi di ricotta con salsa di pomodori gialli e crumble di pepe nero, accompagnati da un vino base Il “Governo di Castellare” che, come spiega,
Andrea Cabib (
nella foto, a sinistra), direttore commerciale dell’azienda, è un vino prodotto con il vecchio metodo del Governo: dopo la prima fermentazione si aggiungono uve appassite per la seconda fermentazione malolattica e il vino è pronto già a primavera. Un vino giovane, fresco, morbido, di buona beva, ottimo servito fresco anche d’estate.

La verticale inizia partendo dal vino più vecchio e salendo fino al più giovane. Il 2002 innanzitutto va ricordato come un anno disastroso dal punto di vista climatico, dovuto alla notevole quantità di precipitazioni nel periodo estivo. Nonostante ciò l’enologo di Castellare, il winemaker Alessandro Cellai decise, insieme al patron Panerai, di “uscire” e vinificare lo stesso. Ne è scaturito un vino di un profumo lieve, con note vegetali di bacche, ginepro e con toni dai caratteri balsamici. Un buon tannino presente ne irrobustisce il sorso.
Il 2005 è maturato bene, in un’annata che possiamo definire standard, un classico da un buon profumo e di colore rubino, dai sentori di cioccolato, con note di caffè. Equilibrato e con un buon impianto tannico. L’etichetta di questa bottiglia raffigura lo Stiaccino, un uccellino di piccole dimensioni, più piccolo di un passero. Tutte le etichette di Castellare di Castellina rappresentano una vera e propria collezione poiché sulle etichette di Castellare è riprodotto ogni anno un uccello diverso, scelto fra quelli in via di estinzione. La presenza di questi uccellini in questi territori è sintomo di un’attenzione verso l’ambiente, con un utilizzo di diserbanti non chimici, quali zolfo e verderame in piccole quantità.
A seguire proviamo il 2006 caratterizzato da un’annata climatica equilibrata: il profumo è ottimo, il sapore presenta un buon rapporto fresco/acido, con meno tannino ma con un rimando amarognolo. «Ricordate il cioccolatino Boero, quel cioccolatino composto di una ciliegia sotto spirito avvolta col suo liquore in uno spesso guscio di cioccolato fondente? Sorseggiate questo vino e immaginerete di avere in bocca uno di questi bon bon piemontesi», suggerisce Andrea Alpi incuriosendo gli ospiti.
L’elemento che unisce queste annate non è soltanto il tempo ma anche e soprattutto il vitigno utilizzato. Castellare ha avuto il merito della sperimentazione e di aver trovato il vitigno che maggiormente si è adattato al territorio: il Sangioveto che unito alla Malvasia nera in minor quantità, da corpo, struttura, profumo e gusto a questo importante vino toscano.
Il 2008 si presenta già al profumo come il migliore della serata. L’annata ha vissuto di un caldo intenso ma mitigato dall’altezza delle colline di Castellina in Chianti: il profumo denota caratteristiche speziate con note di pepe nero e al sapore traspare un tannino equilibrato con note animali.
L’elemento olfattivo è molto importante nell’analisi di vino e in questo territorio, possiamo classificare cinque tipologie di profumi: dolci, viola e violetta, frutti di bosco, tabacco, e animale o cuoio stagionato e conciato.

Chiude la verticale l’annata 2012, dalle note olfattive lievi ma con un gusto di decise caratteristiche fruttate che prepara il palato al piatto clou della serata: la famosa “Orecchia di elefante alla milanese” di Chicco Cerea, una prelibatezza unica! È la prima volta che assaggio la cotoletta alla milanese in questa versione, per la quale occorre un’ottima sella di sanato piemontese lasciato frollare per quattro settimane. Da qui si ricava un carrè dal quale utilizzare solo sette delle otto coste; con grande maestria bisogna battere delicatamente e per bene la carne una volta distesa su un piano di lavoro, così da ammorbidirla e portarla ad uno spessore di circa un centimetro e mezzo per un diametro perlomeno di cinquanta. Una spiegazione quasi enciclopedica ma necessaria per capire l’arte di questo piatto.
La serata è perfettamente riuscita grazie all’abbinata tra due delle nostre migliori eccellenze enogastronomiche, I Sodi di San Niccolò e la cucina dei Cerea, nel segno e nel ricordo del grande Luigi Veronelli del quale il Seminario ne porta avanti i grandi valori intellettuali e culturali e del quale ricordiamo una delle frasi più originali: “I migliori saluti a te e a tutti quelli che ti vogliono bene”. Prosit!