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Viticoltura eroica: così il Nebbiolo sfida il clima tra i terrazzamenti dell’Alto Canavese

Daniele Alessandrini
di Daniele Alessandrini
05 novembre 2025 | 09:30

Le peculiarità della viticoltura “eroica” e le sfide climatiche sono state oggetto di un interessante tour nel nord della provincia torinese ai confini con la Valle d’Aosta, promosso da Coldiretti Torino e guidato dal giornalista Massimiliano Borgia. L'importanza enogastronomica e turistica dell’Alto Canavese è sottolineata da recenti riconoscimenti pubblici. Il Distretto del Cibo e del Vino “Mombarone, Serra Morenica e Naviglio di Ivrea” è stato riconosciuto nel 2023 dalla Regione Piemonte per promuovere lo sviluppo sostenibile, mentre i paesaggi terrazzati viticoli e agricoli del Mombarone sono stati iscritti nel 2024 nel Registro Nazionale del paesaggio rurale, delle pratiche agricole e conoscenze tradizionali. Il clima è una variabile di difficile gestione ma apre grandi prospettive ai viticoltori di montagna. A questo proposito, andranno presto rivisti i disciplinari delle regole di produzione di alcuni vini per renderli più attuali e flessibili.

Viticoltura eroica: così il Nebbiolo sfida il clima tra i terrazzamenti dell’Alto Canavese

Le vigne di Nebbiolo tra i terrazzamenti dell'Alto Canavese

Il Nebbiolo di Carema e la cantina che sfida la montagna

La tappa iniziale del viaggio ha riguardato la Cantina dei Produttori di Nebbiolo di Carema, ultimo comune piemontese prima di Pont-Saint-Martin (Ao), dopo aver percorso verso nord le terre dell’Anfiteatro Morenico d’Ivrea, là dove l’occhio è rubato dalle rocce montonate levigate dal Ghiacciaio Balteo. I massi del versante soleggiato ospitano le vigne terrazzate, le cui viti possono sopravvivere alle basse temperature grazie al rilascio termico notturno della pietra che gli guarda le spalle.

Viticoltura eroica: così il Nebbiolo sfida il clima tra i terrazzamenti dell’Alto Canavese

Alcune etichette del passato di Nebbiolo di Carema

Il Canavese è un’importante zona maidicola del Piemonte, approssimandosi alla Valle d’Aosta il clima cambia e la pianura è a prato e pascolo. Nei territori rocciosi impervi, sin dal passato remoto la coltivazione è stata garantita dai terrazzamenti, con i suggestivi muretti a secco che fanno da contenitore alla terra riportata sui pendii da fondo valle.

L’enologo Manlio Muggianu e la memoria del territorio

Manlio Muggianu è da 33 anni l’enologo e il cantiniere della cooperativa e ci racconta la sua storia a cominciare dalla prima vendemmia del 1993: «Vendemmia disastrosa a causa di una grandinata ai primi di maggio che rase al suolo molte vigne riducendo il raccolto dell’85%: meno di 100 quintali d’uva rispetto ai tradizionali 600-700. Pensai: “Qui si lavora poco, è un bel posto”» dice scherzando. Carema si trova in una piccolissima conca delimitata a nord da uno sperone di montagna oltre il quale c'è la Valle d'Aosta e poco più a sud da un altro sperone dietro cui si cela la piccola frazione di Airale. La Doc Carema ha 22 ettari di vigneti - a metà del secolo scorso superavano i 100, sfruttando anche il bosco - 15 dei quali appartengono agli oltre cento soci della cooperativa, che vanta anche un patrimonio di viti di 60 anni.

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L’enologo Manlio Muggianu

La produzione del consorzio è di 40-45 mila bottiglie annue, esportate per il 30% in Usa, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e storicamente Giappone. L'allevamento è a pergola (“topia” in dialetto piemontese), la cui struttura è sostenuta da piloni troncoconici (“pilùn”) che servono anche da termoregolatori: fatti di calce e pietra, di giorno accumulano calore e la notte lo rilasciano evitando le gelate in vigna. «Con la stessa pietra dei piloni si fecero i muretti a secco - aggiunge Muggianu - completando i terrazzamenti con la terra trasportata dalle donne caremesi nelle gerle caricate sulla schiena. Avendo poco spazio e poca terra per coltivare, la pergola consentiva alla barbatella di crescere in altezza arrampicandosi. Una decina di anni fa si sono reimpiantate alcune vigne grazie a nuove piccole aziende gestite da giovani viticoltori».

Il lavoro non può essere meccanizzato e solo in pochi casi è possibile avvicinarsi ai terrazzamenti percorrendo piccoli sentieri interpoderali con un’ape o un trattorino. Poi si salgono le scale di pietra a piedi e si fa tutto a mano: sfalciatura, trattamenti, potatura, legatura e ovviamente vendemmia. «Se si dovessero calcolare le ore di lavoro, il nostro vino non avrebbe prezzo» sottolinea Manlio, che però non ama la parola "eroe". «Un vecchio viticoltore di Carema mi diceva che per essere eroi bisogna essere morti e lui non voleva morire. Lo trovo un termine abusato: è un lavoro faticoso il nostro, non eroico. Eroico è troppo, molto più questo».

Eroismo o resistenza? Il dibattito sulla viticoltura di montagna

L’aggettivo “eroico” accostato a certa viticoltura va in effetti maneggiato con cura. Chi lavora la terra in zone malagevoli lo fa con grande sacrificio e merita molta stima e attenzione, soprattutto necessita del giusto sostegno economico. Glorificandone l’attività, si rischia di liquidare la questione con una pacca sulle spalle e l’iscrizione nel Registro Nazionale dei Vigneti Eroici, istituito nel 2020. Sono gli stessi piccoli produttori a lamentarsi delle complessità burocratiche per accedere ai finanziamenti stanziati dall’Unione Europea o dallo Stato: più si è “piccoli”, più è difficile ricevere aiuti. La politica - europea, nazionale e regionale - si fa bella mentre i soldi che finiscono nelle mani dei viticoltori sono pochi; per non parlare degli incentivi destinati ai giovani. Lo spopolamento delle aree rurali è sotto gli occhi di tutti e con tale fenomeno aumenta il pericolo di dissesti idrogeologici.

La vendemmia a mano e le botti di rovere

Armati di forbici e ceste, i vendemmiatori della cooperativa fanno una cernita di Nebbiolo su tre livelli qualitativi: l’uva migliore per il Carema, poi quella per il vino da tavola (ad esempio gli acini della punta del grappolo, di solito poco zuccherini) da tagliare con le uve Ner d’Ala e Neretto, infine l’uva che in passato serviva per fare la grappa in casa. A proposito del passato, l’origine della Cantina ha dell’anacronistico. L’imprenditore Adriano Olivetti nel 1960 decise infatti di sostenere sia moralmente che economicamente i contadini di Carema, diventati operai nella sua azienda di Ivrea. Nacque così il consorzio e, in una sorta di part-time fabbrica-vigna, i viticoltori poterono continuare a lavorare la terra scongiurando il rischio di abbandonarla.

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Le botti di rovere

Dopo l’esplorazione dei gradoni e il taglio di alcuni grappoli abbiamo visitato la bottaia notando contenitori di solo rovere, nonostante il disciplinare della Doc Carema consenta l’impiego di diverse tipologie di legno. Pure i tempi di maturazione sono frutto dell’esperienza e la sosta in botte grande è prolungata fino ad un minimo di 24 mesi, che diventano 36 nella versione Riserva (il disciplinare stabilisce un minimo di 12 e 18 mesi rispettivamente). Nella versione barricata, il Riserva trascorre ulteriori 10 mesi in botticelle non nuove.

La Turna e La Ciuenda

Dopo esserci accomiatati dalla Cantina dei Produttori di Nebbiolo con un buon bicchiere di Carema, abbiamo ripetuto l’esperienza della vendemmia tagliando i grappoli di Erbaluce sui terrazzamenti de La Turna di Settimo Vittone, scortati dai titolari Danilo Giachino e Mauro Orlassino. La visita si è completata con un piacevole assaggio dello spumante Bollicine La Turna, un metodo Martinotti di Erbaluce in purezza da uve appassite. L’azienda agricola produce vini, grappa e olio extravergine.

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Le indicazioni per La Ciuenda

Tra i progetti della Fondazione Campagna Amica di Coldiretti c’è quello di selezionare agricoltori e allevatori in base a criteri di qualità, equità e solidarietà, promuovendo la filiera corta produttore-consumatore. L’agriturismo alpino e caseificio “La Ciuenda” di Nicoletta Jari a Settimo Vittone in regione Rovarnero (1.250 m. slm) si cala perfettamente in questa realtà, nel contesto dell’alpeggio in cui i bovini dell’azienda vengono trasferiti in estate. La strada che da fondo valle sale verso l'alpe mostra scenari suggestivi e una volta giunti all’agriturismo il colpo d’occhio è incantevole. Il pranzo a base di prodotti genuini e tipici è un’esperienza caldamente consigliata.

I balmèt di Borgofranco d’Ivrea e le miasse

Il ritiro del Ghiacciaio Balteo e il completo scioglimento avvenuto più di 10.000 anni fa hanno dato origine a un fenomeno geologico di frane e fessure nei massi di Borgofranco d'Ivrea, luogo che in linea di massima segna il confine tra le rocce montonate dell’Alto Canavese e la Serra Morenica, formatasi in direzione sud-est. I balmetti di Borgofranco (in dialetto balmèt) sono più di duecento piccole grotte adibite a cantine a ridosso dei massi, le cui origini si perdono nel tempo. Dalle fessure nelle rocce esce una corrente d’aria detta “ora” la cui temperatura di circa 10°C è pressoché costante e la percezione è di fresco in estate e tepore in inverno. L’ambiente è ideale per la conservazione di cibo e vino. Dopo aver visitato un balmetto abbiamo gustato una specialità gastronomica locale, le miasse, preparate al Balmet dal Farinel da Marco Omenetto.

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La preparazione delle miasse

La semplicità degli ingredienti base dell’impasto di queste sottilissime cialde rettangolari (farina di mais e acqua) contrasta con l’abilità e la fatica nel prepararle come tradizione comanda. Su un cavalletto di ferro, alcune piastre dello stesso metallo sono arroventate sul fuoco vivo e maneggiate con cura e arte sopraffina, come si confà a un custode di usi e costumi che vanno conservati nel tempo. La pastella è stesa sulle piastre e poi rimossa rapidamente. Le miasse vengono infine tagliate e farcite a piacimento, a mo’ di tramezzino di polenta.

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