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Il “valzer” delle cifre In Italia deve tornare l’occupazione

di Rocco Pozzulo
presidente FIC - Federazione italiana cuochi
 
10 novembre 2017 | 08:51

Il “valzer” delle cifre In Italia deve tornare l’occupazione

di Rocco Pozzulo
presidente FIC - Federazione italiana cuochi
10 novembre 2017 | 08:51
 

Il nostro Paese è pieno di persone che non possono lavorare, perché non trovano occupazione o l’hanno persa. Quello che il governo deve fare è cercare di restituire la dignità. Di lavoro da fare, in Italia, ce n’è tanto.

Abbiamo sentito parlare spesso in quest’ultimo periodo di Def, una sigla il cui significato non è propriamente chiaro a molti di noi. Esso identifica il “Documento di economia e finanza” quale piano d’azione del governo in carica in tema di economia. Non si tratta di una legge, ma di un programma e di una relazione legata alla sua gestione. Naturalmente si dà ampio spazio a cifre, numeri e percentuali, messi a confronto con periodi passati, ed altri a previsione futura, che appaiono come la ridda del famoso valzer “Storielle del bosco viennese” di Strauss: le tonalità acute sono le cifre positive, quelle basse - ahimè - le “note dolenti”.

(Il valzer delle cifre In Italia deve tornare l’occupazione)

Molto si è soffermato Padoan, stimato e illustre economista di fama mondiale e nostro ministro di Economia e Finanze, sui progressi fatti dai governi di questo mandato in fatto di occupazione e sua crescita: chi parla di 750mila, chi di 1 milione in quattro anni con nuovi posti di lavoro. Bene, queste cifre in qualche maniera indicano una frenata del periodo buio della nostra economia e di una percettibile controtendenza, ma la realtà è che in Italia da tempo sono in cerca di occupazione oltre 3 milioni di persone. Tanti, troppi a mio avviso.

Nel resto del mondo li chiamano disoccupati (unemployed), perché è la mancanza di un lavoro (perduto o mai trovato) che connota la loro condizione, mentre solo noi italiani paradossalmente li definiamo sulla base dell’attività di ricerca del lavoro, li chiamiamo appunto persone “in cerca di occupazione”. Se consideriamo tutti coloro a cui manca il lavoro e che sono disponibili a lavorare, a prescindere dal fatto che Io cerchino più o meno attivamente, le cifre della disoccupazione raddoppiano e arrivano a 6 milioni di persone su tutto il territorio italiano. A queste bisognerebbe aggiungere anche coloro che hanno un lavoro “da poco” (poche ore, poche tutele, poco reddito) e aspirano legittimamente ad averne uno migliore, più decente o per il quale hanno sacrificato anni di studio. Conteggiata anche questa condizione arriveremmo a cifre ancora più drammatiche. Insomma, manca una quantità enorme di lavoro, e la cosa paradossale è che c’è una quantità enorme di lavoro da fare in Italia per uscire da questo stato di cose che ci relega nella coda degli Stati dell’Euro-zona in una situazione di grave disagio economico.

A mio dire, e con tutto il rispetto per il lavoro fatto sino ad ora dai nostri politici a fronte della disoccupazione, le note acute e belle di questo Def certo non rallegrano, specie dopo tutto quello che ci passa tutti i giorni sotto gli occhi, in fatto di malessere sociale e di vere difficoltà per arrivare a fine mese per moltissime famiglie italiane. Gli economisti e i nostri politici dicono che sono le imprese che dovrebbero creare il lavoro, mentre loro sostengono che devono esserci ragioni di mercato perché si creino posti di lavoro. Giustamente una merce o un servizio vengono prodotti solo se possono essere venduti e comprati ad un prezzo che remuneri il capitale investito, altrimenti non c’è convenienza a produrli.

Io credo, secondo il mio povero e umile pensiero di “ignorante” della materia, che le “convenienze” non debbano essere solo economiche, ma anche sociali. Ci sono attività e servizi che lo Stato in quanto tale (inteso come amministratore) dovrebbe avere l’assoluto interesse a produrre per il bene collettivo, rendendo effettivi e tangibili i diritti citati nella Costituzione per tutti i cittadini, a prescindere dalle ragioni di mercato. Lo Stato svolge un ruolo importantissimo nella creazione di occupazione attraverso gli apparati della sanità, dello studio e della formazione professionale (scuole e università), dei servizi sociali e per la collettività (trasporti, servizi d’ordine e sicurezza, giustizia, ecc.) ed è suo e prioritario interesse che questi funzionino al meglio, un po’ come avviene in Svizzera o in Germania.

(Il valzer delle cifre In Italia deve tornare l’occupazione)

L’interesse pubblico negli ultimi anni spesso è passato in secondo piano, abdicando in favore dell’interesse privato, ed è per questo che l’attuale modello di occupazione è gravemente deteriorato, dove esiste una quantità enorme di “lavoro da fare” pur essendoci milioni di persone senza occupazione. È sufficiente guardarsi intorno per capire tutto il lavoro che serve. Lavoro prezioso, utile e necessario, lavoro per ogni tipo di competenza e predisposizione, manuale o intellettuale. Abbiamo infrastrutture fatiscenti, scuole che si sgretolano letteralmente sulle teste dei loro occupanti, servizi di trasporto locale per lavoratori e studenti a livello di terzo mondo, e potrei citare altre, mille cose in stato di grave declino, il tutto perché lo Stato ha dato in concessione, o ha “svenduto” a privati, servizi che erano non più gestibili o problematici da coordinare.

Recentemente qualche sindaco coraggioso ha impegnato i clandestini arrivati in Italia, che si sono messi a disposizione della collettività, per lavori socialmente utili, impiegandoli in piccoli lavori di pulizia e manutenzione del territorio. Penso che ideologicamente questa sia la strada giusta: impiegare tutti i nostri disoccupati (restituendo loro una dignità) per le necessità e i bisogni collettivi, senza che lo Stato deleghi o appalti a poco rassicuranti società private (vedi lo scandalo di “Mafia Capitale”).

La nuova Fic ha posto in essere prima di tutto le convenienze di utilità, attenzione agli aspetti sociali e interessi intrinseci della intera categoria anziché quelli strettamente economici. Se avessimo dovuto guardare i conti e le cifre, avremmo già chiuso da tempo la nostra rivista “Il Cuoco” vista la sua insostenibilità economica, perdendo un’essenza storica della Federazione, non avremmo inviato i nostri docenti in lungo e in largo per l’Italia a fare alta formazione gratuitamente per i nostri associati, non avremmo mandato i nostri cuochi nelle zone terremotate al servizio della collettività, non avremmo sostenuto e collaborato con enti (pubblici e privati) ed aziende con azioni rivolte a implementare la nostra economia e l’immagine di un’Italia che non subisce ma reagisce.

Mi rendo conto che governare e amministrare un Paese come l’Italia con suoi oltre 60 milioni di abitanti non è certo facile, non è come gestire la nostra Federazione italiana cuochi, ma se ci ponessimo con un po’ più di fiducia nelle nostre possibilità, con più altruismo e senza l’indottrinamento del “Dio denaro”, credo che lavorando tutti assieme si possa contrastare molte crisi ed ogni grave declino, rendendo il nostro Paese “ricco” dei suoi beni culturali, della sua enogastronomia e del suo turismo, in uno Stato che potrebbe essere come nessun altro al mondo, dove le note riportate dai futuri Def potranno essere sempre in ascesa, simili alla “Cavalcata delle Valchirie” di Wagner. Un augurio di buon lavoro a tutti.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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