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L’arte antica della vinificazione nel nuovo libro su Joško Gravner

In tutte le librerie “Gravner. Coltivare il vino”, omaggio a uno dei padri della viticoltura rigorosa secondo cui bisogna essere capaci di intervenire il meno possibile. Testo di Stefano Caffarri, foto di Alvise Barsanti

di Mariella Morosi
 
20 maggio 2015 | 11:59

L’arte antica della vinificazione nel nuovo libro su Joško Gravner

In tutte le librerie “Gravner. Coltivare il vino”, omaggio a uno dei padri della viticoltura rigorosa secondo cui bisogna essere capaci di intervenire il meno possibile. Testo di Stefano Caffarri, foto di Alvise Barsanti

di Mariella Morosi
20 maggio 2015 | 11:59
 

Il vino è già nella terra, è parte e non figlio della vite. Questo il senso del titolo del libro “Gravner. Coltivare il vino” sul produttore vitivinicolo Joško Gravner (nella foto qui sotto), quasi una leggenda del Friuli enologico. Le sue etichette sono del tutto fuori dal coro, frutto di una sensibilità legata all’arte antica della vinificazione, in particolare alla tecnica caucasica di affidare il mosto a grandi anfore di argilla rivestite di cera d’api e poi interrate. II tempo, ingrediente e strumento, farà il resto. All’uomo, durante lunghi anni, il compito di scandirne gli intervalli. L’ultimo suo bianco messo in commercio è della vendemmia 2007. Non solo, questo vino “rivoluzionario” va bevuto in una speciale coppa di vetro disegnata dallo stesso Gravner perché “devi toccarlo, tenerlo nella mano, prima di berlo, e mai freddo”.

Joško Gravner (foto A. Barsanti)
Joško Gravner (foto A. Barsanti)

Questo volume che prima di avvicinare il lettore al calice lo porta alla terra, all’origine del processo, già nel formato è insolito: ricorda l’album di famiglia, con immagini e frammenti intimi, ed è dedicato a Miha, il figlio che non c’è più. Impegnativo, anche per uno scrittore come Stefano Caffarri (nella foto sotto, a destra), raccontare un uomo che fa vini diversi, unici, espressioni della natura che solo il tempo amico - che non tradisce e va rispettato - può rendere maturi. Fare poco, paradossalmente, è per Gravner è una delle azioni più coraggiose.

Alla presentazione del volume, alla libreria Settembrini di Roma, Giampaolo Gravina (nella foto sotto, al centro), scrittore e degustatore, ne ha cercato con l’autore e il protagonista una chiave di lettura. E non tanto isolando professionalmente il tema del prodotto finale ma tutto ciò che lo precede, perché il “vino è nel pensiero”, suggerito dal grappolo al momento del taglio, quando la madre vite ha esaurito il compito di nutrirlo. Il risultato non è dovuto solo al processo di vinificazione, quindi, ma al modo di Joško Gravner di “stare al mondo”, come precisa subito Stefano Caffarri nel libro.

«Nella sua storia - scrive l’autore - tutto torna. Il suo vino è il suo pensiero, e il suo pensiero è il suo modo di stare al mondo». Lo racconta con frammenti di scrittura, appena una trentina, in un percorso quasi circolare, ciclico, in cui il primo si aggancia all’ultimo, con gli scatti in bianco e nero di Alvise Barsanti. «È un racconto libero - ha detto Giampaolo Gravina - con una sintonia fine, una modulazione con il soggetto. La strategia del racconto funziona per immagini, per analogie, non indulge ad analisi o tecnicismi del linguaggio della critica vinicola. È un libro che va giù in un sorso».



Il vino è da subito nel pensiero di Gravner, ma non è un prodotto cerebrale, da avvicinare con griglie intellettuali. È pensato ma non costruito, rivendica una sua componente corporea e fisica molto forte. Saper fare vino, per questo produttore, è avere l’intuizione di quando si deve intervenire. Il vino, o meglio ciò che diventerà, dopo una lunga macerazione torna in un certo senso nella terra, materiale in cui è fatta l’anfora, per un contatto non osmotico ma molto prossimo. È qui che avviene la magia. Poi passeranno lunghi anni perché diventi bottiglia.

«Il vino nuovo fermenta e si agita nella terra, il vino futuro si appresta ad attraversare il mondo. Il silenzio è la musica». Per Gravner bisogna essere capaci di non fare, intervenire meno possibile. Eppure negli anni Ottanta dopo viaggi, esperienze, ricerche e assaggi, aveva testato - e subito abbandonato - i dogmi dell’enologia moderna scegliendo di tornare al vino dei padri. «Vede l’acciaio e la sua indifferenza, vede il legno che sa essere importante ma anche troppo». La diraspatrice? Per millenni se n’è fatto a meno, non filtra né chiarifica. «Oggi si dà sempre meno importanza alla terra e più all’uomo e alla tecnologia. È ora di ridare la parola al territorio».

Fa un vino pensato ma non costruito, ma per nulla cerebrale. «Il suo non fare - scrive l’autore - significa autocontrollo necessario per non avere paura di non fare e maturità intellettuale che va oltre l’artificio». Il ruolo del temo è quasi un manifesto per Gravner. Si libera della tirannia dell’immediatezza - ha sottolineato Giampaolo Gravina citando il “Dioniso crocifisso” di Michel Le Gris, il filosofo proprietario di un’enoteca a Strasburgo. «L’impazienza è spesso ossessione della sicurezza e l’enologo è portato a sanare qualcosa di negativo prima ancora che accada. C’è l’elogio dell’anti-interventismo, perché bisogna fare i conti con la natura: è la differenza delle annate a suggerire come lavorare».

Da sinistra: Joško Gravner, Gianpaolo Gravina e Stefano Caffarri
Da sinistra: Joško Gravner, Gianpaolo Gravina e Stefano Caffarri

Ma queste scelte tanto radicali e insolite, questo “viaggio verso la sorgente”, danno la certezza di far bene? «No - dice Gravner - ho tutti i timori del mondo ma non ne ho paura. Il mio vino esce dai canoni, viene capito da poche persone ed è giusto che sia così. Nuotare controcorrente crea sempre problemi. Ma continuo a lavorare così nella mia “azienda a cielo aperto”. Il contadino non è mai soddisfatto di quello che fa. Deve sempre far meglio, anno dopo anno, impossibile toccare la punta più alta della montagna».

Il suo vino - tanto più per un degustatore di professione - dice ancora Gravina - è di difficile collocazione, a cominciare dal colore e dal profumo, non si può raccontare con scorciatoie convenzionali né può sottostare a punteggi. Serve un approccio più empatico. Con un livello comunicativo elevato ha una funzione edonistica, richiama la socializzazione, il convivio, il cibo. È abbinabile quasi tutti i sapori. Del resto per Gravner «il compito di un grande vino è quello di diventare se stesso e il suo valore morale del vino sta nella bassa produzione». Nei suoi 15 ettari tra la Slovenia e l’Italia, a Lenzuolo Bianco, una località di Oslavia (Gorizia), 8mila piante a ettaro, produce 230 ettolitri di vino: Bianco Breg, Ribolla, Rosso Gravner, o Rosso Breg.
 

“Gravner. Coltivare il vino”
Racconto di Stefano Caffarri
Immagini di Alvise Barsanti
Editore: Cucchiaio d’Argento
Lingue: italiano, sloveno, inglese
Prezzo: 19 euro

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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