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La sala riparte solo se cambiano le scuole e il modo di raccontarla

Per Marco Poli, restaurant manager de La Fornace di San Vittore Olona (Mi), la crisi della sala nasce molto prima del reclutamento e affonda le radici in una formazione datata che non prepara davvero al mestiere. Secondo lui serve un cambio culturale: percorsi più attuali, una narrazione diversa e la capacità di mostrare che in sala esistono reali prospettive di crescita

Nicholas Reitano
di Nicholas Reitano
Redattore
05 dicembre 2025 | 05:00
La sala riparte solo se cambiano le scuole e il modo di raccontarla

La crisi della sala non nasce dall’oggi al domani. Per anni la ristorazione ha costruito un immaginario sbilanciato: la cucina è diventata il luogo dell’ambizione, della visibilità, delle carriere possibili; la sala, al contrario, è rimasta ferma in un racconto che la dipingeva come un lavoro meno qualificato, quasi un passaggio obbligato prima di fare altro. Quando un settore viene rappresentato così, i giovani semplicemente non lo scelgono. E infatti gli istituti alberghieri si sono trovati con classi sempre più vuote proprio sul fronte del servizio: chi si iscrive preferisce la cucina, chi potrebbe scegliere la sala non la considera nemmeno.

È qui che si colloca la lettura di Marco Poli, restaurant manager de La Fornace al Poli Hotel di San Vittore Olona (Mi). Secondo lui non si può parlare di carenza di personale senza guardare alla radice culturale che la alimenta. «Ogni anno le iscrizioni calano e alcune classi chiudono. Se non riparte la scuola, non ripartirà il mestiere» dice con grande rammarico. Per Poli il 2026 deve diventare l’anno in cui la comunicazione smette di alimentare questa distanza e restituisce alla sala il ruolo che le spetta nella ristorazione.

Una storia che nasce in famiglia e diventa una professione consapevole

L’esperienza con cui oggi ragiona su questi temi nasce da una vita trascorsa nei ristoranti. La sua è una storia che parte da lontano, da quando - bambino - si ritrovava nel locale di famiglia più per dovere che per scelta. «Avevo sei o sette anni e mio padre mi portava lì. Non mi piaceva, ma negli anni Ottanta le aziende familiari funzionavano così: tutti dentro, volenti o nolenti». Terminata la scuola, un diploma in ragioneria e programmazione che oggi non esiste più, Poli si è reso conto che il lavoro lo aspettava già. È lì che la ristorazione ha iniziato a diventare una strada da costruire con consapevolezza.

La sala riparte solo se cambiano le scuole e il modo di raccontarla

La sala del ristorante La Fornace di San Vittore Olona (Mi)

«Tra i 18 e i 20 anni ho capito che stava nascendo una passione. Ho iniziato a formarmi da solo, seguendo corsi sul vino, sulla cucina, sul marketing. Da lì mi sono messo in gioco davvero». Il passaggio alla maturità professionale coincide anche con gli anni passati in Francia, un’esperienza che ancora oggi considera decisiva. Lì ha imparato a stare davanti al cliente, a superare una timidezza che gli impediva di muoversi con sicurezza. «Sono tornato che ero un altro. A 19 anni, da solo, impari per forza. La sala è una palestra umana incredibile: ti fa crescere, ti costringe a gestire relazioni e problemi, ti responsabilizza». Un esempio che, secondo Poli, dovrebbe essere raccontato molto di più ai ragazzi che si affacciano al settore.

Costi, turni, marginalità: il modello di sala attuale non regge più

Mentre la sua carriera prendeva forma, però, il mercato iniziava a cambiare: i nuovi ritmi di vita, la revisione delle priorità personali e la corsa all’equilibrio tra lavoro e tempo libero, aspetti che hanno trasformato la ristorazione. Poli ha provato a tenere il passo, studiando modelli d’impresa e costi reali. «Il nostro lavoro ti insegna a non lamentarti, ma a cercare soluzioni. Ho provato a capire perché il personale mancasse davvero, e la risposta cambiava ogni sei mesi. Prima era lo stipendio, poi non è stato più così: le persone volevano tempo, non più soldi». Questo ha rivoluzionato l’organizzazione dei ristoranti, costringendo chiunque a ripensare turni, squadre e orari. Tuttavia la sostenibilità economica resta il nodo più difficile da sciogliere.

La sala riparte solo se cambiano le scuole e il modo di raccontarla

Marco Poli, restaurant manager de La Fornace al Poli Hotel di San Vittore Olona (Mi)

«Oggi avere due squadre non è sostenibile. Un quarto livello, uno chef de rang, costa quasi 40mila euro l’anno. Sommalo alla cucina, alla sala, alle colazioni. Con i costi delle materie prime attuali, serve un controllo di gestione continuo, altrimenti non reggi». Poli non lo dice per teoria: negli anni scorsi, in un ristorante per cui faceva consulenza,, ha scelto infatti di chiudere il servizio del mezzogiorno per evitare il collasso dell’organizzazione. Una decisione drastica che però ha portato risultati reali. «Ho perso il 20% del fatturato, ma la marginalità è salita del 10%. Allineando i turni, nessuno ha perso lo stipendio e la qualità della vita è migliorata. È questo il tipo di scelte che oggi molti dovranno valutare».

Giovani e professione: manca la prospettiva

Da qui nasce anche una riflessione sulla percezione esterna del settore. Il racconto pubblico, secondo Poli, ha spesso semplificato un problema complesso, alimentando etichette che non rappresentano il lavoro quotidiano di molte imprese. «Vedo articoli che dipingono la ristorazione come un mondo di sfruttatori. Non nego che esistano realtà scadenti, ma sono casi isolati. Molti colleghi lavorano seriamente, danno due giorni di riposo, organizzano turni sostenibili. Continuare a parlare solo di sfruttamento non aiuta nessuno».

Se quindi il problema non si risolve solo aumentando gli stipendi o riducendo gli orari, la chiave - secondo Poli - riguarda la motivazione profonda delle persone: «Come dice spesso Flavio Briatore, le persone le motivi in due modi: o con i soldi o con il successo. Abbiamo già visto che i soldi non bastano. Il punto è quindi dare una prospettiva. Dire a un ragazzo: inizi da cameriere, ma puoi arrivare a gestire un ristorante, a guidare un team, a lavorare in una grande struttura».

Marco Poli

Ai ragazzi di oggi bisogna dare una prospettiva, dicendo: inizi da cameriere, ma puoi arrivare a gestire un ristorante, a guidare un team, a lavorare in una grande struttura

Marco Poli Restaurant manager

E ancora una volta si torna al tema delle scuole. Per Poli, gli istituti professionali non sono attrezzati per il presente. I programmi sono vecchi, i tirocini non seguono l’evoluzione del comparto, la divisione sala/cucina continua a essere sbilanciata. «In molte scuole la stra grande maggioranza degli studenti va in cucina e il resto in sala. È il risultato di dieci anni di comunicazione che ha trasformato gli chef in figure aspirazionali. La sala, invece, e purtroppo, non ha avuto lo stesso racconto».

E se già questo squilibrio crea problemi, figuriamoci quando cala anche il numero complessivo degli iscritti. È qui che il quadro diventa davvero preoccupante. Dal 2014/2015 - l’anno in cui l’Alberghiero toccò il 9,2% delle preferenze nazionali - la tendenza ha iniziato a cambiare direzione. Prima una discesa lenta, poi sempre più evidente, fino al crollo registrato nel post-Covid. Oggi, nell’anno scolastico 2025/26, l’indirizzo si ferma al 3,94% delle scelte complessive, secondo i dati del MIM. Numeri che pesano più di qualsiasi dibattito su stipendi o contratti: senza una nuova generazione pronta a entrare in questo mestiere, la sala non ha possibilità di tornare attrattiva.

Media e associazioni: chi racconta la sala deve assumersi responsabilità

È in questo contesto, fatto di squilibri formativi e di una percezione ormai indebolita, che per Poli diventa essenziale tornare a mostrare cosa significhi davvero lavorare in sala. Il punto, dice, è far vedere che questo mestiere non è un ripiego ma un percorso che può cambiare le persone, soprattutto i più giovani. Nei locali in cui lavora vede spesso ragazzi che, pur arrivando timidi o insicuri, trovano nella relazione con il pubblico un’occasione di crescita personale: «I ragazzi di oggi spesso hanno paura di esporsi. Al ristorante gli capita di parlare con persone diverse, prendere decisioni, organizzarsi. È una scuola di vita. Dovremmo dirlo di più».

La sala riparte solo se cambiano le scuole e il modo di raccontarla

La sala, per Poli, è una scuola di vita

Il quadro resta delicato. La fuga dal settore continua e le dinamiche del mercato non aiutano. «Nell’ultimo anno ho visto diverse persone scegliere strade diverse dalla ristorazione, spesso per avere liberi i weekend e le festività, nonostante facessero solo la mattina. È un segnale chiaro di quanto sia cambiata la percezione del lavoro». Proprio per questo Poli guarda con interesse ai primi segnali di cambiamento nel modo in cui media e associazioni raccontano il lavoro di sala. «Negli ultimi mesi vedo articoli - come quelli di Italia a Tavola - che parlano della sala come opportunità, non come ripiego. È un passo avanti. Le associazioni stanno facendo un lavoro importante. Bisogna continuare».

2026: cambiare narrativa. 2027: cambiare sistema

Da questo bisogno di riformulare il racconto della sala nasce anche lo sguardo che Poli rivolge ai prossimi anni. Non si aspetta soluzioni rapide, né inversioni immediate, perché la crisi - culturale prima che occupazionale - richiede tempo per sedimentare. «Secondo me toccheremo il punto più basso l’anno prossimo. Per vedere segnali veri servirà il 2027. È un processo lento». Il suo appello finale è pragmatico, quasi una chiamata collettiva: «Il 2026 deve essere l’anno della comunicazione. Se non si muovono media, istituzioni, scuole e aziende, non cambierà niente. Bisogna aggiornare i corsi, rendere accessibile una carriera, abbassare i costi che pesano sui ristoratori e dare dignità economica a chi lavora. E soprattutto smettere di raccontare la sala come un ripiego. C’è chi lavora bene e con passione. Dobbiamo farlo vedere».

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