Giornalisti vs. influencer Le regole non bastano, serve l’etica

È un dato di fatto che in una realtà che evolve così velocemente ed in un mercato globale dove i flussi di bit sono incontrollabili che leggi e regolamentazioni arrivino in ritardo rispetto ai fenomeni che accadono . E così, a rimetterci, è anche l’informazione tradizionale sempre più in lotta con quella del web

16 settembre 2018 | 09:29
di Vincenzo D’Antonio
A fronte della pubblicità occulta presente nei post pubblicati sui social media e sui blog da parte di blogger e degli influencer, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato non trova altro di meglio che far scattare per la seconda volta in un anno un’azione di moral suasion. Sì, di quelle che fanno tremare i polsi sia ai food blogger che agli influencer.



Il fenomeno era dapprima limitato alle cosiddette celebrità, ovvero a food blogger ed influencer oramai divenuti famosi che astutamente, onde proseguire a prosperare nel loro business, si sono adeguati collaborativamente alle (poche) regole semplicemente adoperando hashtag e talvolta segnalando i post pubblicitari.

Adesso il fenomeno si sta ampliando alla seconda fascia, ben più popolosa sebbene meno popolare: blogger ed influencer non così tanto “celebri” e non così tanto importanti hanno catturato l’attenzione di piccoli e medi marchi. Costoro, a fronte di compenso e/o di forniture gratuite, fanno sì che si parli dei loro prodotti/servizi nei blog e nei profili social del blogger/influencer che a ciò accondiscende. Se la valenza pubblicitaria del messaggio venisse correttamente segnalata ai followers, non vi sarebbe nulla di male; ma purtroppo ciò raramente accade.

E stiamo parlando di importi rilevanti se pensiamo che l’online advertising segnò appena un +3% anno 2007 su anno 2006 per balzare ad un +27% anno 2016 su anno 2015 (non ancora si dispone dei dati 2017 su 2016).

La crescita ha coinvolto in misura rilevante il mondo del food in tutte le sue articolazioni: dai prodotti agroalimentari, al canale Horeca. Di particolare rilevanza per scorrettezza comportamentale le pagine dei blog che propongono ricette. Qui la pubblicità non si palesa con i banner, in tal caso saremmo nel lecito. Qui il messaggio enfatico proprio della pubblicità viene veicolato dai food blogger mediante foto e riferimenti testuali dove il brand appare bene in vista. E, lo si ribadisce, oramai anche le pmi indirizzano una parte rilevante del loro budget pubblicitario in questa direzione.

Il lettore/follower ha il diritto di sapere quando il food blogger realizza un filmato di show cooking per illustrare una sua ricetta sollecitato da uno sponsor, e quando invece scrive liberamente senza un vincolo di natura economica, fornitura di prodotti e/o compenso in denaro che esso sia.

Ed a poco può, lo si constata amaramente, la digital chart, ovvero il documento pubblicato dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria sul tema della trasparenza della pubblicità in rete. La digital chart detta le norme per le promozioni sul web. In particolare si afferma che “il fine promozionale del commento o dell’opinione espressa da celebrity/influencer/blogger, qualora non sia già chiaramente riconoscibile dal contesto, deve essere reso noto all’utente con mezzi idonei”.



E i giornalisti? Non vorremmo dare l’idea che stiamo parlando di pecore nere, tutte da una sola parte, e di pecore immacolate, tutte dall’altra parte. Forse davvero si è portati a seguire i cattivi esempi piuttosto che i buoni consigli ed allora, evidentemente il fenomeno di cui stiamo trattando ha in sé una peccaminosa valenza contaminante. Difatti può capitare che anche giornalisti famosi (ed a traino quelli meno famosi) si prestino a lasciare ambigua la separazione tra un’informazione frutto di libero pensiero ed un’informazione suggerita da soggetto terzo, informazione sponsorizzata, diremmo. Ma così si violano le regole: finti articoli per promuovere veri prodotti, a fronte di compensi economici e/o di benefit. È pubblicità mascherata.

Riportiamo testualmente, a scanso di equivoci ed incomprensioni, l’articolo 7 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale in vigore dal 2 maggio 2018: Identificazione della comunicazione commerciale: “La comunicazione commerciale deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.

Chiaro, no? Quindi, anche le aziende che stipulano contratti con food blogger, hanno il dovere di essere trasparenti e di pretendere che i servizi sponsorizzati siano chiaramente distinguibili. La responsabilità delle aziende nel pretendere trasparenza dai food blogger e dagli influencer non ammette deroghe. Ed ancora, l’art. 23 del Codice del consumo (in vigore dal 2005) considera illecita la condotta consistente nel dichiarare o lasciare intendere, contrariamente al vero, che un soggetto stia agendo quale consumatore e non nell’ambito di un’attività remunerata. Pertanto il food blogger che agisce quale testimonial di un brand è tenuto a rivelarlo ai propri follower.

Insomma, sebbene inevitabilmente ex-post, le regole, magari poche ed insufficienti, ci sono. Si tratta di rispettarle e di farle rispettare. Si tratta di aiutare i lettori/followers a riuscire a percepire il confine, volutamente ambiguo, tra l’informazione e la pubblicità mascherata.

E cosa ciò significa, alla fin fine? Si tratta di rifarsi, ciascheduno nel proprio ruolo, all’etica. Etica senza aggettivazione innanzitutto; poi a seguire, etica professionale di ciascheduno attore. Da quest’etica professionale scaturisce naturalmente il diritto, ancora prima che il dovere, di sentirsi in coscienza ed in pratica comportamentale permeati dal virtuoso rigore deontologico. Ed etica comportamentale e rigore deontologico, laddove attivi e non sopiti quando addirittura non endemicamente assenti, di certo rendono impervia la strada agli scorretti ed ai furbetti.

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Alberto Lupini


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