Da “manodopera” a “mentedopera” La ristorazione richiede studio costante

25 agosto 2017 | 10:06
di Vincenzo D’Antonio
Nel secolo scorso ebbe senso, in società agricola in prima metà ed in società industriale nella seconda metà (consapevolmente abbiamo tagliato di accetta e non di fino), pensare a ciclo di vita che contemplasse la stagione (breve per i tanti, lunga per i pochi) dello studio, che aveva separazione netta in studio per apprendere (gli istituti professionali e tecnici) ed in studio per formarsi (i licei); indi la successiva lunga stagione del lavoro e, a consunzione, la stagione della pensione (la tramontata era del welfare!).



Nella società della conoscenza, la cosiddetta knowledge society che connota il secolo attuale, lo scenario evolve velocemente e con esso, in volano virtuoso di causa ed effetto, si modifica il ciclo dello scorso secolo. La stagione dello studio cessa di essere, breve o lungo, segmento, con suo inizio e sua fine, e diviene semiretta. Ha punto di origine ma non ha fine. Quando si entra nella stagione del lavoro, si comincia “anche” a lavorare, ovvero ad espletare mansioni e a percorrere carriere, ma a questo lavoro che è applicazione di conoscenza e sapere, si affianca il cammino perpetuo dello studio.

Il mondo della ristorazione si è per troppo tempo abituato e nocivamente adagiato su un ingresso di persone il cui abito mentale, gradito al ristoratore, era così sunteggiabile: «Ho fatto il mio percorso di studi, in segmento breve, i miei studi erano orientati a farmi apprendere (e non a formarmi) e quindi adesso “conosco il mestiere” (non la “professione”) ed eccomi qui pronto a...».

Eccoci all’interrogativo cruciale: «Pronto a...»? Ed ecco la risposta, tanto attesa quanto gradita al ristoratore: «Pronto ad essere manodopera». Ed ecco, allora, la manodopera in cucina, la brigata con assetto gerarchico e mansioni parcellizzate; ed ecco la manodopera in sala, gestione del ménage, transfer di comanda da cliente a cucina, andirivieni di piatti; ed ecco la manodopera alla plonge. E si tace dei servizi di pulizia e di magazzino.

Ha funzionato? Sì, diciamo che nel contesto del passato recente, posta la vis imprenditoriale del ristoratore, il suo variegato e talvolta confusionario accollamento di mansioni BoH e FoH, l’impiego di manodopera ha funzionato.

E se ha funzionato, perché mai adesso non dovrebbe più funzionare? La risposta è nel mutato scenario delle stagioni di vita. Nella knowledge society che, grazie alla rete sta facendo vivere al 51% del pianeta una grande rivoluzione cognitiva (di pari livello nel passato lo furono solo l’alfabeto, poi la carta, poi la stampa di Gutenberg e poi l’elaborazione elettronica dei dati), non c’è più posto per la manodopera nel mondo della ristorazione, perché nella knowledge society non si va al ristorante per sfamarsi ma si va al ristorante per vivere una deliziosa esperienza cognitiva ed emozionale.

Forse c’è ancora posto per la manodopera ma, guarda caso, poi non c’è posto da protagonista sul mercato, per quei ristoranti che ancora impiegano “manodopera”. Vedo incredulità ed immagino le obiezioni dei ristoratori: «Dovremmo assumere ingegneri, medici, architetti, avvocati, al posto di cuochi e camerieri?». La risposta è «assolutamente no».

Si tratta, molto semplicemente, di assumere cuochi e camerieri che non siano e non si sentano manodopera, ma che siano e che siano portati ad essere “mentedopera”. Mentedopera è, poste le necessarie basi culturali, soprattutto un abito mentale. Si è mentedopera e non manodopera quando in coerenza con il proprio sentire, non si abbandona la stagione dello studio ma, bensì, si vive lo studio come il quotidiano carburante necessario a fare strada, nuova e bella, giorno dopo giorno. Si è mentedopera quando si assimila il principio secondo il quale se una cosa è fatta bene, c’è molto probabilmente un modo, da individuare e da discutere in gruppo, per farla meglio. Si è mentedopera quando non ci si chiede il perché delle cose viste, bensì il “perché no?” degli scenari immaginati. Si è mentedopera quando si sbriglia creatività e talento.

E allora, grande lo sforzo della manodopera di una volta a divenire mentedopera. Sforzo più lieve per manodopera della generazione Millennials, propensa in virtù della tecnologia abilitante con la quale si è in naturale confidenza, a sentirsi mentedopera.

Ma, attenzione, lo sforzo più grande, diciamolo chiaramente, è quello che dovrà compiere, vistosa la commutazione paradigmatica, il ristoratore. È il ristoratore del secondo decennio del ventunesimo secolo ben propenso, per davvero e non per finta, a volere ricercare, selezionare, assumere e formare mentedopera? E, se sì, quali i canali mediante i quali effettuare ricerca efficace? Quali i criteri e gli svolgimenti della selezione delle candidature? Quali i meccanismi di assunzione?

E, last but not least, di quali strumenti avvedutamente si dota per formare e tenere sempre formato il suo team di “mentedopera”? Non è cosa facile; alto il rischio del mismatch. Non è cosa facile, tuttavia è cosa da farsi. E a non farla? Poco male, forse si sopravvive. Ma, appunto, si sopravvive. Ma vuoi mettere la grande bellezza di un ambiente di lavoro dove si confrontano e lavorano menti brillanti unite a sapienti laboriose mani? E da questi ambienti che sortiscono le soddisfazioni per il ristoratore. Tutti i tipi di soddisfazioni, tangibili e non.

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Alberto Lupini


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