Le tendenze di un take away di qualità Dal “dine in as dine out” allo street food

07 gennaio 2017 | 10:47
di Vincenzo D’Antonio
Nell’evolvente scenario della ristorazione italiana di qualità, muta sembianza e sostanza, intrigante il trend, anche il cosiddetto takeaway. Da melanconica concezione di cibo da asporto, l’unto del recipiente, il giungere a domicilio a temperatura inidonea ed a fragranza in buona parte smarrita, pizzerie e rosticcerie gli ambiti di erogazione di questo servizio, il fenomeno del takeaway va assumendo connotazione bina. È cerchio che diviene ellisse. Non più un mesto centro, bensì due vivaci e briosi fuochi: i fuochi ellittici.



Il dissolvimento dell’asporto pressoché necessitato, o per meglio dire un suo negletto ruolo e, di contro, l’emergere di due interessanti e luminosi scenari: il “dine in as dine out” e lo “street food”. Il lato sontuoso e reso ricco dalle condizioni a contorno, l’uno, e l’aspetto “no frills”, l’altro. Sono in giunzione, non confliggono e non si sovrappongono. Vi è migrazione estemporanea di utenza dall’una all’altra delle due realtà.

Il “dine in as dine out” è il frutto di un’evoluzione costante e virtuosa di chi da avventore, nei decenni è divenuto cliente conscio dei suoi diritti di fruitore consapevole di servizio cruciale per la qualità della vita, e da cliente è divenuto cliente gourmet: competente, appassionato, gaudentemente studioso degli aspetti salienti dell’arte culinaria, rispettoso del lavoro di cucina (e di sala).

E allora la scelta di emulare le situazioni di una sala ristorante, nella realtà la propria sala da pranzo, ma anche, in forma ridotta e facilitata, le situazioni della cucina del ristorante, nella realtà la propria attrezzata e coccolata cucina di casa. La gioia e l’allegria nell’individuare il dream menu, l’esercizio di far combaciare al meglio il dream con l’offering dei ristoratori con cui si stabilisce un valevole rapporto fiduciario, esso irrinunciabile. Un’esperienza deliziosa che principia già dal momento della decisione di porre in essere un “dine in as dine out”.

La convivialità, ovvero invitare amici e, talvolta, la promiscuità: alcuni piatti di provenienza ristorante, un altro, perché no, approntato in casa, i vini dalla propria cantina, a sua volta alimentata da smart buys, i dolci dall’individuata pasticceria. L’insorgere di attori terzi, a partire dalla delivery, che deve essere specializzata per quanto vi deve essere tempestività e certezza di tempi ed attenzione massima al comfort termico, potrà comportare anche una sorta di broker del “dine in as dine out”: collazione dei desideri, trasformazione in ordini trasmessi a più fornitori, sorta di ghiotto groupage ed invio a destinazione.



Insomma, un mondo che si apre, un ristorante che aumenta il suo spazio, dacché virtualmente è suo spazio la sala pranzo (parzialmente la cucina) della casa del cliente, e che aumenta anche il suo tempo in quanto svincola i tempi di fruizione del pasto da quelli di produzione del medesimo.

E l’altro fuoco ellittico? Lo street food da leggersi come take away di corto, cortissimo, raggio! Un locale open che non incuta soggezione all’ingresso, un offering reso easy to read, easy to order, easy to buy. Cruciale, irrinunciabile, la trasparenza nella qualità del cibo, onde non confondere, ne è tristemente piena la memoria recente, lo street food con un ambulantato dove sovente, ahinoi, non solo latitava la qualità, ma latitava anche l’igiene.

Acquisizione del cibo da strada, lo “street food” appunto, e la sua fruizione, non proprio necessariamente letterale, in strada. “Il muretto” si direbbe, piuttosto che la panchina, l’ufficio durante la pausa, luogo altro che comunque non mortifichi, va detto, il momento lento e piacevole del “mangiare”. Anche qui, con lo “street food”, efficace risulta l’ausilio della tecnologia abilitante, che diviene, lato erogazione, il key factor di successo per ampliamento e selezione di clientela (si pensi ai millenials). Presenza consapevole e sapiente (altrimenti di autogoal si tratta) sui social media.

Per entrambe le realtà, si tratta, lato erogazione, di acquisire nuove competenze e, necessariamente, anche nuove sensibilità. Si tratta, lato fruizione, di sbrigliare fantasia, e nel sentirsi (ed essere) parte attività della community always on saper cogliere la chance di nuove emozioni e di nuove esperienze in un ripensamento gioioso delle coordinate di spazio e di tempo, in linea con l’anelito ad una sempre migliore qualità del vivere quotidiano.

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Alberto Lupini


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