Ristorazione collettiva al palo. Ristori e contratti gli ostacoli

Il cataclisma del 2020 ha segnato il comparto che ha il suo core business in scuole, aziende e ospedali. Sostanzialmente dimenticati dagli aiuti del Governo, le aziende rischiano di non ripartire . Problemi anche per i Criteri ambientali minimi che comprendono tutti gli strumenti del mestiere

04 febbraio 2021 | 08:31
di Nicola Grolla
Prima la pandemia, poi lo smart working e infine le aperture a singhiozzo delle scuole. Il 2020 della ristorazione collettiva è stato un cataclisma. Modelli di business che saltano, necessità di aumentare protocolli di sicurezza già molto elevati, cassa integrazione e contratti da rinegoziare hanno impegnato le imprese a far fronte a una crisi senza precedenti che ha generato un calo complessivo di ricavi e volume di vendite pari a 1,5 miliardi di euro a causa di un ammanco di 329 milioni di pasti non serviti. Di questo passo, entro il 2022, il settore rischia di sparire.

Nel 2020 il settore della collettiva ha perso circa 1,5 miliardi di fatturato

Il primo lockdown, le prime difficoltà
A colpire duramente è stato il primo lockdown che ha di fatto serrato tutti i campi di attività della ristorazione collettiva: scuole, aziende e ospedali. In particolare, quest’ultimi hanno dovuto impedire l’accesso degli accompagnatori che hanno fatto venir meno la clientela dei bar all’interno degli ospedali e riconvertire diversi reparti per trattare i pazienti Covid (i cui consumi sono ridotti al minimo vista la malattia). La ripresa non è andata meglio. Nel bimestre maggio-giugno, nonostante la parziale riapertura di molte attività, i ricavi sono stati meno della metà di quanto incassato nell’analogo periodo del 2019 e hanno appesantito i conti economici del periodo marzo-giugno per un -66% di giro d’affari.

Ristori? Solo per chi fattura meno di 5 milioni
Una situazione per cui servirebbero subito dei ristori. «Nel decreto Ristori 4 in effetti i nostri codici Ateco sono presenti, ma con il limite dei cinque milioni di euro di fatturato molte aziende restano tagliate fuori perché troppo grandi», spiega Carlo Scarsciotti, presidente Angem (Associazione nazionale delle aziende della ristorazione collettiva e servizi vari) e portavoce Orion (Osservatorio ristorazione collettiva e nutrizione). Inoltre, il criterio della chiusura o meno dell’attività ha condizionato non poco l’accesso agli aiuti a fondo perduto: «La collettiva non è mai stata chiusa in effetti. Anzi, ha dimostrato grande resilienza sapendosi adattare in modo propositivo alla situazione per trasformare il servizio affinché tutelasse personale e utenti. Molti dei protocolli da noi messi a punto nelle prime fasi della pandemia sono poi stati estesi ad altri settori», ribadisce Scarsciotti.

Tema, quello della sicurezza, che ha impattato sui costi di gestione del servizio e su cui il Governo è intervenuto con un credito di imposta del 60% per le spese relative ai dispositivi di protezione individuale. Poca cosa se si pensa che, mediamente, ogni piatto è costato 50 centesimi in più per far fronte a queste spese.

Scolastica a singhiozzo, male l'aziendale
Andando più nello specifico, la ristorazione scolastica è quella che nel 2020 ha sofferto maggiormente. In questo segmento, a causa della chiusura delle scuole, la perdita dei ricavi ha superato il -60% rispetto ai 12 mesi precedenti per un ammanco di circa 819 milioni di euro. Perdite dovute anche alla diluizione del servizio di refezione scolastica che deve tenere conto di classi a orari ridotti, alternanze, ecc. Laddove si è preservato il servizio, infatti, il 48% delle scuole ha optato per il doppio turno, il 36% ha utilizzato spazi diversi dal refettorio e solo il 16% ha puntato sul pasto al banco (senza sporzionamento).

Diverso il discorso per la ristorazione aziendale che al momento presenta le maggiori fragilità nel medio-lungo termine. «Il comparto non ripartirà nel 2021, anno in cui ci aspettiamo un ulteriore taglio del 35% del fatturato», afferma Scarsciotti. I motivi? La pandemia, certo, ma anche lo smart working. Un fenomeno spinto dall’emergenza che punta a diventare strutturale nei prossimi anni. Magari non per tutta la forza lavoro e neppure per tutta la settimana, ma la flessibilità di orario e luogo saranno sempre più assorbiti dalle aziende (il 68% del campione di una suervey Adip, Associazione dei direttori del personale, ha affermato che manterrà lo smart working anche dopo la pandemia), soprattutto di grande dimensione, per andare incontri alle esigenze di un miglior work-life balance da parte dei dipendenti e per abbassare qualche voce di costo; come la mensa. «Eppure, sono sicuro che a lungo andare ai lavoratori mancherà quel senso di appartenenza, quella socialità, quel far parte di un team che solo il lavoro in presenza può trasmettere. Nessuno vuole essere considerato come un numero da remoto», confida Scarsciotti.

Contratti e Cam gli ostacoli
Eppure, le vie di uscita dalla crisi non mancano. Alcune passano per la revisione e l’aggiornamento dei contratti: «Qualcosa è stato fatto. In particolare, sulla scolastica. Ma è ancora poco. Anche perché, se la rinegoziazione di un servizio a domanda individuale costringe le famiglie a pagare di più a noi non va bene. Noi stiamo chiedendo qualcosa in più», sottolinea Scarsciotti. Altre strade percorrono la via della ricerca e dello sviluppo all’interno di tracce che devono tener conto dell’efficienza del servizio («Nella collettiva non ci sono sprechi ma eccedenze, ossia quello che resta sul piatto dell’utente», ricorda Scarsciotti) e dei Cam (Criteri ambientali minimi). «Nei Cam c’è di tutto: dai forni all’equipaggiamento per il risparmio energetico, dai prodotti monouso agli alimenti. Paletti rigidi che in un momento come questo, dove a volte abbiamo faticato a recuperare le derrate da inserire nei nostri menu, abbiamo chiesto venissero sospesi così da permetterci di riallinearci con la filiera agricola», afferma Scarsciotti.

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Alberto Lupini


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