Anoressia e obesità Sempre più evidente il legame con l'ansia

Anoressia e obesità potrebbero essere causa di carenza dell'allopregnanolone, la "molecola del benessere" e predisporre quindi i soggetti interessati a disagi come ansia e, in casi più estremi, depressione

13 novembre 2017 | 18:45
Questo è il risultato di uno studio firmato dall'italiano Graziano Pinna dell'Università dell'Illinois e pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology.


foto: Ansa

L'allopregnanolone, chiamato anche "allo", è un derivato dell'ormone femminile progesterone: generalmente produce un umore positivo e sensazioni di benessere. Già diverse ricerche hanno collegato i bassi livelli di allo al rischio di depressione e ansia; inoltre questi disturbi sono molto comuni nelle persone che soffrono di anoressia (si parla del 50% delle donne che soffrono di anoressia nervosa) e obesità (la depressione è comune al 43% degli obesi).

Il gruppo di ricerca di Pinna ha così coinvolto in uno studio sperimentale 12 donne con anoressia nervosa, 12 donne di peso normale e 12 donne obese. Si parte dal presupposto che nessuna di queste donne aveva ricevuto una diagnosi di depressione. Tutte sono state sottoposte a un prelievo di sangue e a questionari per valutare la presenza o meno di disturbi d'ansia o depressivi.

I ricercatori hanno trovato che nelle donne con anoressia i livelli di allo nel sangue erano il 50% inferiori rispetto a quelli misurati nel sangue di donne di peso normale; e le donne obese presentavano livelli di allo di circa il 60% inferiori rispetto alle donne di peso normale. Invece la concentrazione di progesterone era normale in tutte le partecipanti, segno che in caso di anoressia e obesità va 'in tilt' il sistema che trasforma il progesterone in allo.

Ultimo dato rilevato, ma fondamentale per lo studio: più bassare era la concentrazione di allo, più le donne anoressiche e obese soffrivano di depressione e ansia. Molevole che aumentano la produzione di allo potrebbero quindi divenire antidepressivi alternativi a quelli già in uso, «che non funzionano in circa la metà dei pazienti», sostiene Pinna.

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Alberto Lupini


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