Dopo il fast food, pericolo fast fashion Dai vestiti l'8% delle allergie cutanee

05 maggio 2017 | 11:48
di Federico Biffignandi

Correre veloce, senza riguardo, sovrastando ostacoli, preoccupandosi solo dell’attimo e non delle conseguenze, del dopo, del futuro. Il tutto spendendo poco, perché il portafogli si sa di questi tempi è sempre più leggero. Nella vita del nuovo millennio il cui tempo (“tempo zero” possibilmente) è scandito dai social, degli smartphone e degli spostamenti veloci la tendenza è questa e non può che riguardare anche abitudini quotidiane e di vitale importanza come il cibo e l’abbigliamento.

Per alimentarsi seguendo lo schema del “tutto e subito… e a basso costo” sono stati inventati e diffusi a macchia d’olio gli ormai celebri fast food provenienti dagli Stati Uniti. Come il migliore dei tormentoni estivi musicali li abbiamo guardati prima con diffidenza, poi ce ne siamo innamorati fino a diventarne dipendenti, ma ora li stiamo abbandonando forti di una cultura tradizionale fondata sulla Dieta mediterranea e di una nuova che sta maturando negli ultimissimi tempi sempre più volta alla sostenibilità, alla leggerezza e al cibo assunto in funzione dei valori nutrizionali.

Ma mentre ci avviamo a considerare il pranzo veloce, low cost e poco salutare solo come uno sfizio da concedersi ogni tanto ecco che c’è un’altra tendenza tutta “fast” che sta prendendo piede. O meglio, una tendenza che piede lo ha già preso eccome ma senza che noi ce ne rendessimo conto e che sapessimo quali rischi realmente nasconda. Al centro della questione ora c’è il cosiddetto “dark fashion” o “fast fashion”: si tratta di capi d’abbigliamento che vengono prodotti quasi sempre in paesi del terzo mondo - il Bangladesh è una delle principali roccaforti - con materie prime che non solo sono di pessima qualità da un punto di vista tecnico, ma sono addirittura dannose per la nostra salute poiché provocano reazione allergiche in alcuni casi anche importanti.

Senza contare che le persone che lavorano su questi capi sono sottopagate, non tutelate e operano in condizioni disumane. L’8% delle patologie dermatologiche europee - dice il Rapex, il sistema comunitario di allerta rapido per i prodotti non alimentari - è causato dalle sostanze chimiche rilasciate dagli abiti che indossiamo e anche in Italia i casi di allergia cutanea grave si moltiplicano.

Il paradosso è che questi capi di scarsa qualità possiamo importarli in Italia dai paesi di produzione, ma gli stessi paesi di produzione non sempre accettano di importare quegli stessi prodotti. Risulta complicato persino da comprendere da un punto di vista logico, ma basti pensare che l’Etiopia (sì, l’Etiopia dell’Africa Nera) accetta da qualche anno solo aziende ecosostenibili e che producano dunque merce “sana”. In questo senso nel “terzo mondo” forse stiamo rischiando di finirci noi. Anche in questo caso, come per il cibo, è ancora il denaro a determinare certe scelte: con poche risorse a disposizione non possiamo che affidarci a capi che costano poco; ma per costare poco non possono certo essere capi all’altezza della sicurezza necessaria.

Un circolo vizioso che si può interrompere affidandosi alle etichette le quali dovrebbero rassicurarci sulla composizione di un capo. Peccato però che sul 15% dei capi non c’è alcuna etichetta e che sul 34% dei capi l’etichetta è “compilata” in modo errato. Cosa fare? Forse anche qui, come ormai per tutti gli alimenti principali, sarebbe necessaria un’etichetta informativa obbligatoria che non solo indichi quali materiali sono stati utilizzati per la produzione di quel capo, ma che racconti anche la storia di quel capo stesso garantendo al consumatore l’ormai celebre “tracciabilità”. Se possibile, alla ricerca del Made in Italy.

Inutile negare infine che un ruolo importante nella diffusione di una sana cultura del vestirsi “sano” lo hanno i fashion blogger, gli influencer, insomma tutti quelli che fanno business pubblicizzando sui social marchi d’abbigliamento. È lampante che per ottenere migliaia di like alcuni di questi devono affidarsi a capi d’abbigliamento di scarsa qualità, perché costano poco e hanno un bacino di potenziali acquirenti molto più ampio. Ma con quale coscienza possono pensare di pubblicizzare un prodotto che fa male? Non sarebbe forse il caso di limitare (o cancellare) questa tendenza un po’ come si è fatto con le sigarette? Forse gli effetti della “dark fashion” non sono gli stessi del fumo, ma il principio appare molto simile. Ciò che serve è unità d’intenti agli alti livelli politici, sociali e culturali cercando di tenere, per una volta, la linea dura.

I ragazzini ormai comprano nelle catene d'abbigliamento che vendono capi a basso costo, il che preoccupa perchè significa che il fenomeno è destinato a durare. Ci vorrà qualche tempo dunque per invertire il trend, il timore è questo anche perché la storia (anche recente) dice questo: un’altra battaglia simile è iniziata con un piccolo anticipo rispetto a quella sulla “dark fashion” ed è quella del gioco d’azzardo. Ma proprio mentre si stava arrivando ad un punto di svolta, la Nazionale di calcio (che per gli italiani conta più del Presidente della Repubblica) ha scelto come sponsor un’agenzia di scommesse… Sarebbe importante non fare lo stesso errore, bloccare sul nascere la cattiva tendenza: insieme alla nuova cultura che sta nascendo attorno al cibo potrebbe segnare una nuova era per il nostro Paese.

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Alberto Lupini


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