Vent’anni di birra artigianale in Italia Un settore in grande... fermento!

06 marzo 2016 | 10:02
di Marta Scarlatti
Gli articoli sugli anniversari rischiano a volte di assumere i contorni del coccodrillo. Ovvero, nel linguaggio giornalistico, di quegli articoli che ogni quotidiano ha nel cassetto e già dedicati a commemorare la scomparsa (ipotetica sia chiaro) di qualche Vip. Anziano solitamente, ma anche giovane come nel caso di Keith Richards che il suo coccodrillo se l’era guadagnato già prima dei trent’anni.

Noi proveremo a evitare il rischio dell’elogio, a volte del piagnisteo, che caratterizza siffatti pezzi per celebrare il primo ventennale della comparsa della birra artigianale in Italia. Dunque, correva l’anno di grazia 1996 e in inconsapevole contemporaneità nascevano i primi brewpub. A Milano il Lambrate, a Piozzo (Cuneo) il Baladin, a Lurago Marinone (Como) il Birrificio Italiano, a Villar Perosa (Torino) il Beba. In provincia di Padova apriva i battenti il Vecchio Birraio (che tanto vecchio al tempo non doveva essere) e a Cremona c’era la Centrale della Birra (ma non c’è più). A dirla proprio tutta in quel di Mentana, provincia di Roma, aveva già aperto nel 1995 battendo tutti sul tempo il brewpub Turbacci ma, dato che in democrazia la maggioranza vince, si è deciso ugualmente di proclamare il 1996 “l’anno zero”.



Da quell’anno è successo letteralmente di tutto. Dopo i brewpub sono arrivati i microbirrifici e dopo di loro, ma in tempi davvero più recenti, le beerfirm. Agli homebrewer pronti a fare il grande salto nel professionismo si sono aggiunti imprenditori altrettanto pronti a investire denari in quello che sembra ancora un gran bel business e un nugolo di società, a volte più di bravi disegnatori di etichette che di conoscitori di birra, prontissime a cercare impianti dove far produrre le loro etichette, pardon idee, pardon birre.

L’esplosione, dai meno di dieci eroi del ‘96 ai circa 1.000 attuali, ha coinvolto i media che oggi parlano più spesso di birra artigianale (valgono pure le volte nelle quali lo fanno a sproposito), fatto nascere centinaia di beershop (che hanno forse addirittura superato il numero dei sexyshop), introdotto le birre artigianali dovunque (dalla Gdo ai negozi gourmet, fino al bar tabacchi sotto casa), creato un paio di navi crociera di esperti (nella birra è facile, basta bersi a collo un paio di pils non filtrate e il gioco è fatto), dato vita a festival, fiere, feste, sagre e chi più ne ha più ne metta e alimentato uno strisciante, ebbene sì nei social “si striscia” molto, mondo di commentatori, opinionisti, polemisti e Giovannini perdigiorno vari.

Ma, in questo ventennio sono obiettivamente successe anche delle cose meravigliose. Alcuni, non tutti ma parecchi, di questi microbirrifici hanno saputo sfornare delle birre fantastiche, di quelle che una volta provate non torni più indietro, hanno ottenuto premi e riconoscimenti internazionali, hanno addirittura conquistato alcuni mercati esteri e oggi bere una birra artigianale italiana a Londra, a New York o a Tokyo non è inimmaginabile come poteva esserlo dieci anni fa. Insomma, un ventennio luci e ombre come in fondo lo è la realtà e la vita tutta, con buona pace di vergini vestali e sepolcri imbiancati, ma un ventennio che ha lasciato il segno.

Certo, la birra artigianale in Italia, oggi come oggi, è una moda. Ma, con buona pace delle prefiche, non è soltanto questo. Quello che è stato, resterà. Non tutto intero, qualche birrificio sparirà (qualcuno magari sarà acquistato), molte beerfirm si stancheranno, qualche imprenditore deciderà che è sempre e comunque meglio mettere i soldi in uno yacht battente bandiera panamense piuttosto che in quattro fermentatori, ma non si assisterà a un rewind.

E allora quale futuro aspetta la birra artigianale italiana nel prossimo ventennio? Ci piacerebbe molto avere quella sicurezza da pistolero del Far West così diffusa in rete (il World Wild - e non Wide - Web) ma, ahinoi, abbiamo iniziato a scrivere con le vecchie Olivetti che sembravano di ghisa e che diventavano portatili solo se avevi una carriola nei paraggi. Proviamo dunque ad azzardare.

L’Italia vedrà sorgere una nuova categoria di birrifici che andranno a collocarsi tra la fascia dei micro, con produzione e distribuzione locale, che andrà sfoltendosi e quella delle multinazionali, che andranno concentrandosi sempre più ma che lanceranno nuove proposte per contrastare la crescita proprio dei piccoli. Il mercato, purtroppo, resterà a lungo ancora quello che è, costringendo i medio piccoli a cercare sempre più la strada dell’estero e i grandi a investire per non perdere quote di mercato. La situazione si tranquillizzerà, diminuiranno festival e corsi, ma quelli che resteranno saranno di migliore qualità. I funamboli della rete, tutti chiacchiere e distintivo, migreranno verso altri lidi dove discutere per giorni interi su qualità, profumi, ingredienti, umore del produttore, tra dietrologie, sindromi da complotto, manie di persecuzione, complessi di inferiorità mascherati da egocentrismi da dittatori dello Stato Libero di Bananas.

Anzi, visto che ci avanzano “duerighedue” per chiudere, a costoro diamo un suggerimento proprio in funzione della futura e augurata migrazione. Tenete d’occhio il caffè ragazzi. Stanno nascendo piccoli torrefattori che vogliono battersi contro le grandi fabbriche brutali, ci sono varietà ancora poco conosciute, tecniche produttive non massificanti. Insomma lo stesso brodo primordiale della birra artigianale vent’anni fa. È un’opportunità da non mancare. È un altro giro di giostra. La vostra perlomeno.

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Alberto Lupini


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