Quando la birra dà un'altra possibilità Dal carcere, il birrificio Vale la pena

25 marzo 2017 | 14:42
di Giovanni Angelucci
In tantissimi amano la birra, i suoi profumi, la sua bevuta fresca dal boccale, l’aria di festa che sempre attorno riesce a creare. E piace ancor di più quando è il simbolo dell’impegno e di storie difficili. Lo dimostra il neonato Vale la pena, un birrificio curato direttamente da nove detenuti del carcere di Rebibbia a Roma, che si occupano non soltanto della produzione di birre artigianali, ma anche del confezionamento e delle vendite.



La bella storia ebbe inizio con una onlus chiamata Semi di libertà nel 2012, a capo del progetto Paolo Strano: «Siamo un gruppo di fisioterapisti che ha conosciuto in prima persona, attraverso il lavoro di ognuno, il mondo della detenzione. Era straziante incontrare persone con un potenziale e talento così elevati, e così tanto sprecati. Abbiamo quindi pensato di creare qualcosa che riducesse il fenomeno delle recidive dando ai detenuti un modo, una possibilità, una chance di non tornare più in carcere, e dedicare mente e corpo in un progetto di lavoro».

In realtà non è la prima volta che la birra viene prodotta in un penitenziario, e il nobile progetto Pausa Cafè ne è l’esempio lampante. Evidentemente la birra rappresenta qualcosa di speciale (non soltanto in termini commerciali, considerando che il settore artigianale è in piena espansione), specialmente per i giovani. I 9 detenuti sono stati formati per 16 mesi nell’istituto Sereni di Roma, dove hanno lavorato imparando dall’impianto della scuola, a disposizione per il progetto. Quindi al mattino uscivano dal carcere di Rebibbia, trascorrevano diverse ore imparando “il mestiere” per poi rientrare il pomeriggio.

Un percorso che prevede anche la semi-libertà e addirittura l’affidamento, come è accaduto per uno di loro assunto dalla Onlus Semi di libertà nonostante non abbia ancora concluso di scontare la pena. E da dove potevano venire i nomi delle birre se non da una “vena galeotta”? Sèntite Libbero, Le(g)Ale, A Piede Libero, Drago’n Cella e Chiave de Cioccolata sono i nomi con cui i ragazzi hanno battezzato le loro creature.

Addirittura la bella storia è arrivata anche a Bruxelles dove i responsabili hanno portato l’esperienza in occasione della premiazione di un contest internazionale. Inoltre è già più di un’idea quella di aprire un punto di mescita a Roma per permettere anche ad altri detenuti di lavorare, nonché di replicare il progetto in altre città italiane. Se non ne vale la pena stavolta, quando?

Per informazioni: www.valelapena.it

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Alberto Lupini


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