Se le “bufale” fanno male alla salute…

05 maggio 2017 | 15:42
Qualcuno dirà che stiamo annoiando con questi continui richiami alla necessità di un’informazione corretta e trasparente sul web. Altri magari aggiungeranno che siamo “antichi”, dimenticando che siamo il network leader da anni per l’aggiornamento professionale online. Il punto è che occorre porre un limite alla situazione da Far West dove, fra insulti, bufale o pubblicità truccate da notizie, i cittadini-consumatori sono disorientati e, per restare nel nostro campo, si aprono scenari pericolosi per le aziende serie e per la salute pubblica. L’ultimo allarme è stato lanciato dalla Coldiretti, secondo la quale le fake news influenzano anche la dieta degli italiani.



Siamo in presenza di siti e di alcuni blogger senza scrupoli che promuovono cibi e abitudini alimentari scorretti, per non parlare di diete assurde e pericolose. Il guaio è che secondo una ricerca ad essere ingannati, perché prestano fede ad autentiche idiozie, sarebbero tre italiani su quattro. Queste bufale non si apprendono più sui giornaletti scandalistici che si sbirciavano un tempo dal parrucchiere o in vacanza.

La fonte è purtroppo il web senza controllo dove è quasi annullata la differenza fra influencer (spesso testimonial-pubblicitari a pagamento senza pudore), blogger (in molti casi anche seri e preparati) o giornalisti, obbligati a rispettare per legge formazione e deontologia.

Come Italia a Tavola siamo da anni impegnati in una battaglia per la correttezza e la serietà sul web a partire dallo scandalo di TripAdvisor (che lede nella sostanza un mercato di libera concorrenza), ma ora è tempo di alzare l’asticella per chiedere norme che tutelino la salute dei consumatori e le prospettive di sviluppo della filiera agroalimentare. I casi delle vaccinazioni sono lì a dimostrare quanto qualche stupidaggine abbia potuto creare pericoli seri per un effetto domino incontrollabile. Al punto che Grillo e i 5 stelle hanno poi fatto retromarcia sul tema.

Questo non significa certo mettere la censura alle opinioni di ciascuno. Anzi. Basterebbe che quel che vale per la stampa (sanzioni e responsabilità civile e penale) fosse applicato per chiunque abbia qualcosa da dire in rete. Abolire l’anonimato e rispondere in proprio è la prima condizione. Non viviamo in una dittatura, per cui per criticare un cuoco o il direttore di un hotel si può benissimo farlo mettendoci la faccia (come facciamo noi giornalisti). E se sosteniamo che un alimento è un rimedio fantastico per chi sa quale malanno, bisogna citare le fonti.

Non possiamo più permettere che qualche imbecille, a pagamento, si prenda gioco della nostra salute solo perché tanto non risponderà mai di quel che pubblica. E se poi ampliamo l’orizzonte e passiamo dall’alimentazione alla moda (dove le fashion influencer dilagano) c’è davvero da preoccuparsi, come ha ben dimostrato un’inchiesta Rai su Petrolio che fa quasi impallidire il marcio che c’è nell’area food in rete.

Qualche speranza comunque comincia a intravedersi. L’Italia è il primo Paese in Europa che sta costringendo le multinazionali del web a pagare qualche tassa e a rispettare delle regole minime. È di queste ore il caso di Google. Chissà che dai colossi si scenda poi ai piccoli operatori artigianali e si entri nel tema cruciale dei contenuti…

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Alberto Lupini


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