Virus, come i migranti del ‘900 in viaggio verso un futuro ignoto
LA QUARANTENA È COMPIUTA: l’isolamento dettato dall’emergenza sanitaria è arrivato a 40 giorni esatti. Ancora non è finito e chissà cosa ci riserverà il prossimo futuro . E così come accadeva ai nostri compatrioti un secolo fa, c'è chi guarda avanti con fiducia e chi con paura e diffidenza
18 aprile 2020 | 08:03
di Vincenzo D’Antonio
Migranti italiani in partenza per gli Stati Uniti
Andiamo a ritroso nel tempo, poco più di un secolo fa, agli inizi del Novecento, quando diventò consistente e duraturo il flusso migratorio dalle nostre terre più povere, in prevalenza dal Meridione, verso gli Stati Uniti.
“Partono le navi per le terre assai lontane...”.
Gli emigranti erano stivati nel fondo dei transatlantici, accanto alla sala macchine rumorosa e puzzolente. In questi spazi angusti e sudici avrebbero trascorso settimane, ammucchiati come bestie, sottratti alla vista dei passeggeri di prima classe. Solo quando costoro si ritiravano per il pranzo nel loro lussuoso ristorante, solo allora era consentito agli emigranti di salire sul ponte per una boccata d'aria. Appena emersi dai boccaporti e usciti all'aria aperta, alcuni di loro, i più provati dallo strappo dalla loro terra, i più nostalgici, si dirigevano a poppa, con lo sguardo inchiodato all'orizzonte dal quale provenivano. Erano gli emigranti di poppa: ancorati al loro passato. Gli altri, più determinati, correvano a prua nella speranza di poter scorgere all'orizzonte il profilo della terra di destinazione. Erano gli emigranti di prua: quelli anelavano ad una vita migliore.
Siamo ricorsi a questa metafora perché anche noi, noi tutti nessuno escluso, sospinti da quella catastrofe che è il Covid-19, siamo nostro malgrado emigranti, dacché stiamo lasciando una terra nota per la quale nutriamo affetto, per dirigerci verso una terra ignota. L’ignoto genera sgomento, cela insidie al disvelamento delle quali siamo colti sovente impreparati. E però la terra ignota, piaccia o meno, sarà il nostro territorio prossimo venturo nel quale vivremo.
Se ci sentiremo emigranti di poppa, allora potremo solo sopravvivere e trascorrere le giornate rimpiangendo il bel tempo andato. Se saremo emigranti di prua, ci prodigheremo affinché ci divenga noto in tempi brevi il nuovo scenario, con esso entreremo in confidenza e ben presto sapremo anche apprezzarne i lati positivi che di certo non mancano. Usciremo dal tremore che ci rende eccessivamente guardinghi e che ci fa nascere interiormente quel brutto malanno che si chiama “neofobia”, la paura del nuovo. Si tratta di essere (ma non fare finta di essere) emigranti di prua: ardimentosi, ottimisti, consci delle proprie capacità.
Chiudiamo con un pensiero profondo, di viva attualità, del grande Albert Einstein: «La crisi è la più grande benedizione per le persone e per le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato.
Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e le sue difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che non alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L'inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. È nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che è la tragedia di non voler lottare per superarla».
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