L'incertezza e la crisi bloccano i mercati: serve l'intervento del Governo

Oggi regna una nebbia che impedisce alle imprese qualunque azione o progetto. La pandemia, la guerra e i cambiamenti climatici hanno portato a galla il problema energetico e la vulnerabilità delle filiere agroalimentari

08 novembre 2022 | 11:30
di Massimo A. Giubilesi

Come tutti gli imprenditori sanno più che bene, fare business significa essere lungimiranti e coraggiosi, spesso anche rischiare. Il cosiddetto “rischio di impresa” è un concetto legato alla gestione e alle scelte che si fanno nella conduzione di un’azienda, alle decisioni e l’operatività nel suo complesso che concorrono a produrre risultati. Nessun imprenditore è mai al sicuro in questo senso, perché i risultati dell’attività possono essere positivi o negativi, profittevoli o meno, spesso dipendenti anche da situazioni imprevedibili che si generano. Insomma, la garanzia per avere successo, scusate il gioco di parole, non è mai garantita per nessuno e quando il rischio d’impresa assume la forma dell’incertezza, fare business diventa impossibile, perché in situazioni nebulose, non si possono fare piani per il futuro. L’economista americano Frank Knight (1885-1972), discepolo di J. B. Clark, già durante il secolo scorso ha contribuito alle indagini sull'equilibrio economico tracciando la sua nota teoria secondo la quale “l’incertezza si configura quando non è possibile associare una probabilità al verificarsi di un evento futuro”.

L'incertezza blocca i mercati

Purtroppo, secondo me la parola chiave del momento è proprio l’incertezza che blocca e ostacola ogni iniziativa imprenditoriale in quanto rende impossibile calcolare oggettivamente la probabilità di verificarsi una qualsiasi opportunità di crescita nel prossimo futuro. Gli avvenimenti a livello globale negli ultimi tre anni hanno portato a modifiche profonde in ogni aspetto delle nostre vite, accelerando alcuni importanti processi che necessitavano di molto più tempo per essere applicati senza i traumi che stiamo subendo oggi.

La pandemia, la guerra e i cambiamenti climatici, che tutti assieme hanno portato a galla il problema energetico e la vulnerabilità delle filiere agroalimentari - scenario che, ricordiamoci, era prevedibile e annunciato da anni - oggi ci stanno ingabbiando nel circolo vizioso dell’incertezza. Ormai penso che abbiamo perso l’orientamento cercando di capire i motivi che ci hanno condotto fin qui: alcuni attribuiscono tutto all’emergenza sanitaria, altri al conflitto bellico e/o agli errori politici.

Comunque sia, la crisi che stiamo vivendo è uno stato di fatto e le conseguenze e le prospettive a breve e medio termine non promettono niente di buono e indolore. Ammetto di essere di parte, perché imprenditore della consulenza nel settore Foodservice & Hospitality, ma senza alcun timore di sbagliarmi, vedo ancora questo comparto tra quelli più danneggiati e a rischio. La ristorazione e l’ospitalità si vedono costrette ad affrontare, oltre alle urgenze dettate dalla situazione contingente, anche le grandi trasformazioni in atto, come quella tecnologica in primis e quella ambientale che ne deriva e ne consegue in contemporanea. Aggiungendo poi le problematiche relative alla manodopera e alle materie prime scarseggianti e sempre più costose, il quadro generale diventa sempre più cupo e buio. 

Serve un riferimento per uscire dalla crisi

Sotto la stessa nuvola in questa tempesta perfetta troviamo la dolorosa verità della mancanza di leadership capace di attuare una governance prospettica, che sappia gestire le complessità e le turbolenze dei mercati, guardando con lungimiranza al futuro. Forti delle nostre tradizioni e sotto l’ombrellone del Made in Italy che ci ha sempre spalancato le porte di ogni mercato, oggi ci protegge poco o niente di fronte alla concorrenza che produce con costi notevolmente più bassi. Per il momento ci salva solo la qualità e l’eccellenza indiscussa dei nostri prodotti che pero prima o poi cederanno alle ristrettezze economiche dei consumatori.

Lo confermano i dati Istat relativi al commercio al dettaglio nel primo semestre 2022, che su base annua fanno registrare una diminuzione delle quantità di beni alimentari acquistate per il sesto mese consecutivo: il carrello della spesa degli italiani nel 2022 registra un taglio del 3% delle quantità di prodotti alimentari acquistate rispetto allo scorso anno per effetto del balzo dei prezzi. Anche Coldiretti sottolinea la necessità degli italiani a spendere di più per acquistare meno prodotti per effetto dei prezzi che hanno fatto segnare per gli alimentari un aumento record complessivo del +9,6% tra prodotti freschi e lavorati nel luglio 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

 

I dati del Rapporto Coop 2022 mostrano come l’inflazione in Italia sui prodotti alimentari trasformati ha raggiunto il +10%. Non possiamo assolutamente consolarci del fatto che siamo tutto sommato messi meglio degli altri, per esempio, di Germania (+13,7%) e Spagna (+13,5%), perché ciò significa una forte restrizione all’export che fin ora registrava risultati migliori.

Non se la passa meglio la Grande Distribuzione dove i costi energetici nel 2019 incidevano per l’1,7% del fatturato, oggi hanno un valore del 4,7% e nel 2023 del 5,2%. Inoltre, questo settore da sempre dichiara di essere strutturalmente a bassa redditività, dove piccole variazioni dei margini possono seriamente compromettere la tenuta dei conti economici. Ogni 100 euro spesi dal consumatore generano per il retailer un utile netto di poco più di 1,5 euro. 

Il mistero di certi guadagni...

Rimane allora un mistero, assolutamente da risolvere, fare luce su come ed in tasca di chi finiscono le differenze cospicue tra il prezzo pagato ai produttori e il prezzo pagato dei consumatori. Cito come esempio il recente caso che ha portato a protestare i produttori d’uva che sono costretti a vendere il loro prodotto a 0,40 euro al kg, più spesso 0,35 euro senza possibilità di contrattare nemmeno di 5 centesimi. Sui banchi dei supermercati, però, i prezzi dell’uva raggiungono e superano anche i 4 euro al chilo.

Diventa dunque indispensabile per tutto il comparto agroalimentare italiano, riuscire in tempi brevissimi a tradurre le tendenze in attività quotidiane, trasformare dati e valori in processi e prodotti ad alto valore aggiunto. Dobbiamo “pretendere ad alta voce” dai governanti l’attuazione di politiche attive (non solo vari bonus a pioggia) a sostegno delle imprese e per incoraggiare gli Operatori del settore, alla ricerca di soluzioni sostenibili basate su una visione globale e trasversale, in grado di spostare il baricentro e i vincoli della crisi energetica e dare slancio a nuove strategie vincenti.

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Alberto Lupini


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