Il tristellato Massimo Bottura a Lecce presenta “Vieni in Italia con me”

27 febbraio 2015 | 14:08
di Sandro Romano
Incontro spesso Massimo Bottura (nelle foto) nei vari eventi a cui mi capita di partecipare e, devo ammettere che, ogni volta, riesce a depistarmi. Mi faccio un’idea ma poi, lo incontro successivamente e sono “costretto” a farmene un’altra. Personaggio eclettico, grande cuoco, persona di cultura, uomo carismatico, profondo conoscitore delle materie prime, fine intellettuale, intelligenza fuori dal comune, simpatico, visionario, tradizionalista con occhio orientato al futuro, innovatore con i piedi ben piantati nella tradizione.



Potrei continuare a lungo, ma infine mi rendo conto che questi appellativi sono tutti perfetti per descrivere l’uomo Bottura, personaggio che non fa in tempo a inventarsene una che ne sta già pensando un’altra, uno che è tutto e il contrario di tutto, un uomo che sa sorridere, sempre e in modi diversi: aperto, sornione, enigmatico, vero, genuino, civettuolo, persino timido qualche volta. Uno capace di trasformare un errore in un piatto di grande successo come “Oops mi è caduta la crostatina al limone”, quintessenza del suo modo di vedere la vita, ricetta in cui una crostatina frantumatasi diventa piatto gourmet da servire nel suo ristorante.

È questa la sua forza, ma quando l’ho incontrato precedentemente - lo ammetto - non sempre ho condiviso tutto ciò che gli ho sentito dire, spesso l’ho applaudito, ma quasi mai mi sono alzato in piedi per farlo come la stragrande maggioranza degli astanti.
Lo scorso 23 febbraio, Massimo è venuto a Lecce a presentare il suo libro “Vieni in Italia con me”, in un evento ottimamente organizzato da Intravino e da DeGusto Salento, associazione di produttori di Negroamaro diretta da Ilaria Donateo.

Temevo non poco che la sfacchinata di raggiungere in serata il capoluogo salentino, con rientro a Bari in tarda notte, non valesse la candela visto che solo una ventina di giorni fa avevo ascoltato il suo workshop a Milano in occasione di Identità Golose, in cui aveva parlato di riciclo alimentare e di cucina etica. Avevo trovato, in quell’occasione, molto gradevole il suo intervento ma, considerando che lo incontrerò ancora il prossimo 11 aprile a Firenze in occasione del Premio Italia a Tavola, mi ero quasi deciso a saltare l’appuntamento. Non volevo rischiare di risentire gli stessi concetti - interessanti, per carità - espressi a Milano.

E invece no. Bottura, nella sala Maria d’Enghien del Castello Carlo V di Lecce, strapiena fino quasi a scoppiare, mi ha sorpreso ancora. Presentato dalla raggiante Monica Caradonna, un emozionato Bottura si è affacciato sul palco non immaginando neppure lontanamente quanto calore e affetto gli avessero riservato i pugliesi, per lui giunti numerosissimi da ogni angolo della mia lunga regione, dove per un foggiano arrivare a Lecce è quasi come arrivare a Roma, ci vogliono quasi 3 ore di auto. Eppure i foggiani c’erano, così come i baresi, gli andriesi, i barlettani, i tranesi, i brindisini, i tarantini, i murgesi e, ovviamente, tantissimi salentini.

Grandi applausi e via, si parte con la chiacchierata condotta dall’editore di Intravino Antonio Tomacelli (nella prima foto in alto, a sinistra), nella quale Bottura racconta e si racconta, spiegando al pubblico che è diventato cuoco inseguendo un sogno, lui che, quarto figlio di famiglia benestante, sembrava avere nel suo destino la professione forense.

«Dovevo fare l’avvocato, ma da bambino sono cresciuto sotto il tavolo della cucina mentre mia nonna tirava la sfoglia - racconta Bottura - e per questo l’ho sempre considerato il mio luogo sicuro, il più naturale dove passare la mia vita lavorativa. E così è stato». Diventare cuoco gli è costato tanto, perché il padre non gli parlò per due anni, ma nonostante ciò Bottura tenne duro, inseguendo il suo sogno con umiltà e passione. «Umiltà, passione, sogno». È stato questo uno dei principali messaggi che ha voluto trasmettere soprattutto ai ragazzi dell’alberghiero presenti in sala, spiegando loro quanto sia importante, per realizzare i propri sogni, partire dall’umiltà di apprendere e di mettersi in gioco, animati da quella grande passione che consente di non fermarsi di fronte alle difficoltà e alle delusioni.

Tra le domande di Tomacelli, quella sul valore della tradizione ha permesso al cuoco tristellato di esprimere un altro fondamentale concetto: «La tradizione va analizzata in chiave critica e non nostalgica. Non va messa sotto una teca lasciando che si ricopra di polvere, ma va rinnovata ogni giorno, utilizzando la tecnica al servizio della materia prima». Nella sua cucina ne è un esempio “il bollito non bollito”, dove la carne non cuoce direttamente nell’acqua rilasciando e perdendo i suoi succhi e il suo sapore, ma ogni pezzo che lo compone viene cotto nel roner sottovuoto a 63° per tempi che vanno dalle 16 alle 36 ore, mantenendo così tutta la sua succosità e il suo gusto.

Certo non un piatto alla portata di una casalinga o un cuoco qualsiasi, ma comunque emblematico del Bottura pensiero, realizzato con il supporto della sua capacità tecnica, di un’inventiva fuori dal comune, di una vivacità intellettuale senza confini, e orientato all’estrazione del massimo gusto dalla materia prima utilizzata. Poi, quando il conduttore gli ha chiesto se i cuochi fossero artisti, la risposta dello chef emiliano è stata l’espressione di un concetto che sostengo da sempre e grazie al quale quasi mai mi sono guadagnato grandi simpatie. Lui sì!

«No, i cuochi non possono essere artisti - ha sostenuto Bottura tra gli applausi del pubblico - perché l’artista non ha regole né condizionamenti, il cuoco sì. La cucina è artigianato, a tutti i livelli, e può essere alto, medio o basso. Noi cuochi non dobbiamo mai dimenticare che facciamo da mangiare e che un piatto deve avere soprattutto due regole, cioè essere buono e sano. Tutto il resto viene dopo». Massimo, come dicevo prima non sempre mi sono alzato in piedi ad applaudirti. Ma questa volta sì, e l’ho fatto con il cuore.

Foto del servizio: Nunzio Pacella

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Alberto Lupini


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