Avere un buon vino non basta, bisogna saperlo vendere. Il caso Campania

La regione presenta numeri importanti con Dop e Igp che non mancano. Assente, tuttavia, la capacità di valorizzare il prodotto, di venderlo al giusto prezzo, di aggiornarsi sui nuovi canali di vendita. E poi l'aspetto promozionale, di prodotto e territorio, che dovrebbe affidarsi con decisione a social ed enoturismo

07 settembre 2021 | 05:00
di Vincenzo D’Antonio

Quante storie e quanti spunti di riflessione evoca lo scenario attuale del vino in Campania, quella Campania Felix che da sempre ha nella coltura della vite uno dei tratti distintivi della sua produzione agroalimentare. Spunti che sono stati stappati nel corso dell'edizione 2021 di Campania Stories.

 

I numeri del vino campano

Facciamo prima parlare i numeri. Forniamo dati salienti sulla base dei quali possiamo procedere a tratteggiare la situazione attuale ed individuare le prospettive di evoluzione. Come al solito, elogio del pressappoco: dati approssimati a beneficio di ergonomia di lettura e di memorizzazione, senza che ciò maculi la definizione attendibile dello scenario. La produzione vitivinicola campana si attesta su poco meno di 1,4 milioni di ettolitri, ovvero poco meno del 3% del totale nazionale. La superficie vitata regionale ammonta a circa 26mila ettari di vigneto, ovvero il 4% circa della superficie vitata nazionale. L’economia del vino ha un valore stimato di circa 72 milioni di euro, pari a poco più del 2% del valore nazionale.

 

Patrimonio poco sfruttato

Ed è su questi tre valori percentuali tra scenario campano e scenario nazionale, nel loro esprimersi con 3% (volumi), 4% (superficie vitata), 2% (valori) che ci si basa per una prima amara considerazione. Nonostante un’accorta resa per ettaro (4% della superficie e 3% dei volumi), che lascia intendere una lodevole propensione alla qualità dei vini, il valore è solo il 2%: quindi un prezzo a bottiglia (in sell-in) più basso della media nazionale.

Il peso delle denominazioni protette è considerevolmente basso: 254mila ettolitri Dop (19% circa del totale) e 118mila ettolitri Igp (9% circa del totale). Le Dop sono 19 e le Igp sono 10.

I vini bianchi con 640mila ettolitri costituiscono il 46% della produzione regionale; i vini rossi e rosati, con 735mila ettolitri ne costituiscono il 54%. Ne consegue pertanto che sia la definizione di Campania regione bianchista che, all’opposto, di Campania regione rossista, appare inesatta e fuorviante. Tre aree vitivinicole costituiscono l’80% circa della produzione vinicola: il Sannio (41%), l’Irpinia (28%), il Cilento (11%).

 

Cinque vitigni per segnare un territorio

Le cantine imbottigliatrici sono circa 450. Per snellezza espositiva, sapendo di fare torto a tanti vitigni cosiddetti minori, riconduciamo a cinque le varietà dei vitigni campani: due rossi (Aglianico, Piedirosso), tre bianchi (Falanghina, Fiano, Greco). Quale posizionamento per i vini fatti partendo da questi vitigni? Quale la loro qualità? Le meticolose degustazioni effettuate sia nella prestigiosa sede del Campus “Principe di Napoli” in quel di Agerola che nelle cantine visitate in diverse aree, evidenziano felicemente il lavoro almeno decennale svolto sia nel vigneto che in cantina. A dirla in successivo livello di dettaglio, riservandoci in tempi successivi di raccontare di alcune realtà specifiche, si nota un passo in avanti di Aglianico, specialmente in alcuni Taurasi, un passo in avanti di Fiano e Greco, uno stallo di Falanghina e, almeno due passi in avanti di Piedirosso.

 

 

Or incomincian le dolenti note

Dacché siamo in Anno Dantesco, ricorriamo al celeberrimo verso per intendere che non è così fulgida come invece epidermicamente appare, la prospettiva del business del vino in Campania. Cerchiamo di individuare i motivi che ci inducono al cauto pessimismo, partendo dalla causa basilare da cui le altre scaturiscono.

La causa fondamentale, che innesca le altre è la carenza di risorse intangibili. La crescita economica delle aziende vitivinicole, non solo campane, è oggi fortemente correlata alle cosiddette risorse intangibili che in prima approssimazione qui assimiliamo al capitale intellettuale, ancora da valorizzare ed al mondo delle denominazioni di origine (Dop e Igp). La Campania del vino, con le sue 19 Dop e le sue 10 Igp, ha importanti risorse intangibili e, di conseguenza, ha il potenziale per valorizzare (= dare valore) i suoi vini, per accedere al credito (cosa altra dalle provvidenze regionali) e per realizzare progetti internazionali che consentano di crescere e di esportare su tutti i mercati.


Aumentare il potenziale di offerta all’estero dove è forte la richiesta di qualità made in Italy è fattore fondamentale ai fini del business. Torniamo a quei due numerini, il 3% del volume ed il 2% del valore, per ribadire quanto sia importante e dirimente per le aziende vitivinicole campane dare ai loro vini valori di mercato molto più elevati di quelli attuali. Il capitale intellettuale generato nella filiera dei vini Dop e Igp può servire ad attrarre finanza e partnership di alto livello utili per accelerare la crescita. Nella fase attuale in cui le risorse intangibili sono il grande serbatoio di valore delle economie globalizzate, il vino campano può accrescere la propria dimensione e trovare un posizionamento internazionale più forte, oggi appannaggio solo delle regioni che, si dia onore al merito, sanno fare ciò molto bene e da molto tempo.

 

Un solo caso portato a mo’ di esempio e che, per piacere, tale rimanga: un esempio e nulla più. Quattro le Docg campane: Aglianico del Taburno, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi. Vogliamo leggere qualche wine list di ristoranti operanti all’estero? E’ più probabile che tra i vini italiani siano presenti i Barolo, gli Amarone, i Chianti Classico, i Brunello, i Verdicchio, o uno o più delle succitate quattro Dogcg della Campania? Lo stesso dicasi nel retail specializzato. E, proseguiamo, ammesso che ci siano anche i vini campani, qual è il loro pricing comparato agli altri vini made in Italy?

 

E qui, prendendo scorciatoia essenziale ai fini della brevità espositiva, entrano in gioco i Consorzi e le loro capacità relazionali. Difatti, la dimensione dell’azienda vitivinicola non rappresenta un problema laddove le filiere funzionano e i Consorzi riescono a governare e tutelare sistemi di produzione agroalimentare di qualità, compattando supply chain, logistica, comunicazione.

 

Il capovolgimento paradigmatico

La pandemia ha catalizzato una commutazione paradigmatica che forse ancora sfugge ai più: siamo passati dal vino che si vende, al vino che si compra. E non è cosa da poco! Quando il mercato è del seller, ovvero di colui il quale vende, esso innanzitutto è per definizione un mercato push, ovvero le vendite vengono spinte. Il venditore calibra i trasferimenti di conoscenza del prodotto: conoscenza quanto basta per differenziarmi dal competitor, ma non tanta al punto da rendere il compratore un consumatore “troppo” competente!

Atto cruciale il sell-in, lasciando che sia poi il distributore/importatore, il player che si prende carico del sell-out. Oggi il mercato globale, con mosse non ancora palesemente evidenti e che pertanto necessitano di osservatorio (e di risorse intangibili) per essere ben lette ed interpretate, sta diventando il mercato del buyer. Da push a pull. Di tendenza, diviene fondamentale, quando addirittura non azione unica, il sell-out piuttosto che il sell-in. E quale dimostrazione più evidente di questo trend se non la vistosa crescita delle vendite on-line mediante piattaforme di e-commerce? Ma siamo sicuri che è corretto, ci sia consentita la pignoleria, chiamarle “vendite” on-line? Attenzione, riflettiamo insieme, non sono “vendite” on-line, bensì sono “acquisti” on-line. Sono presenti i vini campani sulle piattaforme di e-commerce che imperano nel mercato globale on-line? E se lo sono, con quali prezzi? E demandando a chi il racconto del prodotto che, ne siamo persuasi, non può prescindere dal racconto del territorio?

 

La nuova ristorazione, il nuovo pricing

Qui ci si riferisce in prevalenza al mercato domestico, ponendo in premessa che con il dopo pandemia sopravviverà e prospererà quella ristorazione che, anch’essa forte degli asset intangibili, ha ben compreso che lo scenario sta rapidamente (ma non palesemente) evolvendo e mutando. Ci si trova al cospetto di due tabù da affrontare e superare. Essi sono correlati nel senso che l’abbattimento del primo agevola l’abbattimento del secondo.

 

Primo tabù: io produttore ti vendo il vino (sell-in) e nel pattuire le modalità di pagamento, quasi metto in conto un differimento dei tempi, quasi me lo aspetto; e anche tu ristoratore, alla fin fine lo sai bene che questo comportamento è quasi prassi. Inoltre, non batto ciglio in quanto sono affari tuoi (sell-out) che il tuo pricing in carta dei vini, del mio vino così come quello degli altri vini, è frutto di una... moltiplicazione. Sì, una moltiplicazione in cui un fattore è il tuo costo, ovvero il rigo di fattura del mio vino, e l’altro fattore è un numero certamente >1 e non è detto che non sia anche >2 e... boh!

Ma perché? Ma perché deve essere così?  Ci si rende conto che con il lockdown, l’end user ha visitato con maggior calma i reparti vino della Gdo ed ha visitato le enoteche? Ha preso contezza dei prezzi dei vini a scaffale. Ci si rende conto che è divenuto avvezzo, si torni alla considerazione precedente, all’acquisto dei vini mediante e-commerce, con trasparenza assoluta dei prezzi?

Ecco la prima evoluzione paradigmatica che pone win-win-win produttore, ristoratore e cliente è passare dalla “moltiplicazione” all’addizione ! Detta così è un postulato. Ci riflettano insieme, i player, e converranno che è fattore vincente per tutti.

Secondo tabù. Uguale al primo in partenza: io vendo, tu compri, tu ricarichi e rivendi. Ecco, e se invece di vendere, io il mio vino te lo dessi in conto vendita? E’ complicato? Sì, lo so. Ma si abbia l’onestà intellettuale di dire qual è la complicazione iniziale: l’assenza di fiducia! E se tu ristoratore, sapendo che è in conto vendita, lo conservi male? E se poi anche dopo che lo hai venduto non mi trasferisci gli importi convenuti? E poi sorgono altre complicazioni di ordine burocratico. Porsi questi interrogativi senza aver analizzato le grandi potenzialità di business incrementale per tutti è un po’, ci sia consentito affermarlo, trovare un problema per ogni soluzione.

 

L’enoturismo

Imprescindibile. Pretendere che l’end user acquisti il mio vino senza che io mi attrezzi a ché costui possa essere il benvenuto in casa mia, è un po’ come ritenere normale che ci si sposi per procura! Hospites sacri sunt! Ed anche qui, giammai un caso, è preponderante l’asset intangibile: il senso dell’ospitalità e, da esso scaturente, tutto il know-how da acquisire onde fare in modo che l’accoglienza, scalabile dalla tasting room al pernottamento, sia un riconosciuto valore aggiunto dell’offerta.

 

La digital society

Il modo migliore per rapportarsi nelle relazioni che la rete abilita, mediante social media innanzitutto, è di non agire proprio. Suggerimento incauto e inattuabile? Magari sarà anche vero ma, ancor più vero è che in rete bisogna saperci stare. Approccio dilettantesco è come prodigarsi per segnare nella propria porta, fare autogoal. Si comprende e ci si adegua al fatto che essere in rete è imprescindibile ma esserlo senza averne competenza è nocivo?

Campania stories, frutto della professionalità e del cuore di Diana Cataldo, Massimo Iannaccone e Serena Valeriani, già guarda all’edizione 2022 che, nella concomitanza di Procida Capitale della Cultura, si svolgerà nei Campi Flegrei. Quel tocco in più, che tanto valore aggiunto arrecherebbe: abilitare momenti di confronto sulle tematiche del business del vino, sapendo e volendo andare oltre le degustazioni, lodevolmente impeccabili, che dell’evento costituiscono comunque il core.

Parlare di vino, consapevoli che intorno al prodotto vino, intorno alla bottiglia gira un business che, piaccia o meno, ci si voglia credere o meno, ha suo starter nelle emozioni che suscita e che propaga.

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Alberto Lupini


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