La liceità, deontologica ancor prima che "legale", del nome "Pizza"

Un distributore di pizza nella capitale, un aggeggio industriale che distribuisce prodotti denominati pizza. Ci chiediamo: si può definire Pizza un prodotto "creato" senza le ''Mani''? Quelle mani dei pizzaiuoli che a Napoli sono divenuti nel 2017 anche Patrimonio Unesco?

12 giugno 2021 | 10:55
di Vincenzo D’Antonio
E se ci stupissimo dello stupore? Perché mai non dovrebbe essere iniziativa di successo il distributore di pizza Mr.Go installato a Piazza Bologna, nella Capitale e funzionante da circa un mese? Ci si stupisce dello stupore del successo che sta riscuotendo questo aggeggio. Parola appropriata: aggeggio. Oggetto senza cuore, senza anima. Preciso, ben progettato, ben “congegnato”, quindi è anche un “congegno” opera di “ingegno”, per produrre un prodotto. A questo prodotto, abbastanza impunemente si conferisce il nome di “pizza”.



Possiamo chiamarla pizza?

E lo stupore dovrebbe risiedere qui! Nella liceità, deontologica ancor prima che “legale”, del nome “pizza” con qui questo prodotto viene definito.

“Emblema” della società industriale

Un aggeggio/congegno che produce un prodotto. E allora?! Siamo o non siamo figli della società industriale? I prodotti hanno un loro valore di scambio e un loro valore d’uso, almeno secondo i dettami dell’economia industriale.

Questo prodotto impunemente denominato “pizza” esitato da un disperato distributore automatico (disperato = senz’anima) ha un valore di scambio di pochi euro ed un valore d’uso risalente alla prima delle sette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati. Ci può stare e difatti ci sta!

Non dimentichiamo il riconoscimento Unesco!

Ecco, e se adesso cambiassimo totalmente argomento? E se adesso, ponendoci a distanza siderale rispetto al tema che ci accingiamo a lasciare, parlassimo, invece, di pizza?

Parliamo di quella creatura che prende vita grazie ad un impasto di acqua, farina e lievito (cum grano salis!), cresce grazie alla simbiosi dei suddetti elementi, transita per il più saggio dei fattori, il fattore tempo, e diviene panetto. E poi ancora tanto di quel tempo e poi le mani. Le mani di coloro i quali sono divenuti Patrimonio Immateriale dell’Umanità: l’arte del pizzaiolo napoletano!

Il grano divenuto farina che incontra l’ulivo divenuto olio. Legna ardente. Il topping come piace.

Il bianco della mozzarella oppure del fiordilatte, il rosso del pomodoro, il verde del basilico: ben oltre la nostra bandiera, a simbolo della vivacità anche policroma di una delizia che soddisfa tutti e cinque i sensi, tatto incluso per quanto è finger food e udito incluso per quanto scrocchia la masticazione del cornicione.

Eccola pronta, appena uscita dal forno a legna. E adesso frettolosamente, in piedi e in solitudine, quattro morsi veloci e l’abbiamo finita!



La pizza piatto della felicità e dell’amicizia

Ma no, è ovvio che non è così. La pizza, quella che di questo nome può fregiarsi, la si mangia seduti a tavola in compagnia e senza andare di fretta. E magari negli allegri calici, l’uva divenuta vino.

Ci sovviene Plutarco: “noi non ci sediamo a tavola per mangiare, ma ci sediamo a tavola per mangiare in compagnia”.

Il tempo prezioso del fare

A Napoli, capitale della pizza, altro cibo di grande tradizione è il ragù. Per farlo ci vuole tempo, pazienza, gli ingredienti giusti e tanta maestria e quel tocco amorevole invisibile quanto indispensabile.

Altrimenti, molto semplicemente… non è ragù!

Stralciamo la parte finale di una ben nota poesia del grande Eduardo dal titolo ‘O Rraù (il ragù):

Tu che dice? Chist' 'e rraù?

E io m' 'o mmagno pe' m' 'o mangià...
M' 'a faje dicere na parola?...
Chesta è carne c' 'a pummarola.

Tu cosa dici, questo è ragù?

Ed io me lo mangio giusto per mangiarlo.
Me la fai dire una parola?
Questa è carne con il pomodoro.

Ecco, intelligenti pauca!


 

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