Turca, turchesa, o turchesca, così è definita, fin dal Settecento, la patata coltivata sulla montagna abruzzese, per sottolineare la sua origine straniera. Il nome, infatti, ricorda il granoturco, ovvero un prodotto che arriva da lontano, dal Nuovo mondo. Analogamente al mais, la patata ha rappresentato per le economie della zona del Gran Sasso una ricchezza insostituibile e una importante risorsa alimentare: poteva essere coltivata a quote notevoli (oltre i 1600 metri), era di facile conservazione, si consumava in loco oppure si scambiava con altri prodotti di base.

In alcuni centri abitati della montagna aquilana, nei secoli, sono stati impiegati grotte e altri ambienti sotterranei a ridosso degli agglomerati urbani proprio per conservare questo prezioso tubero dopo la raccolta e averlo a disposizione quasi tutto l’anno. La patata turchesa ha una buccia viola intenso, ricca di sostanze antiossidanti. Al suo interno, la pasta è di colore bianco candido, ha un basso contenuto in acqua, consistenza e granulosità medie; caratteristiche che la rendono adatta a diversi usi e cotture.
È riconoscibile, oltre che per l’inconfondibile colore esterno, per la forma irregolare, bitorzoluta, e i numerosi occhi profondamente incavati, segno genetico distintivo delle varietà antiche. Anche i fiori sono particolari, grazie alle sfumatura azzurrine dei petali e alla loro lunga persistenza sulla pianta (se la stagione lo consente, può protrarsi fino a novembre). In condizioni favorevoli, la Turchesa è in grado di produrre anche il frutto, una sorta di piccolo pomodoro scuro contenente i semi.