Caro futuro me... Ti scrivo, per non dimenticare

Dalle quattro mura del mio appartamento, riscopro nelle "banalità" che tenevano in piedi la vita di ieri un'opportunità per un domani che può renderci migliori

28 marzo 2020 | 08:26
di Marco Di Giovanni
Ogni mattina, quando il sole si è già svegliato da un po', vado sul balcone e guardo fuori, lontano. Socchiudo gli occhi per sforzarmi di vedere ancora un po' più in là. A volte riesco addirittura ad arrivare fino alla cima della montagna più distante e penso: «Chissà com'è vivere, oggi, dall'altra parte».


Per non commettere gli stessi errori...

Come se al di là del cucuzzolo non ci fosse il male che c'è qua; come se, superata una cima che fa da confine, la gente ancora s'abbracciasse. Me la immagino, mentre si stringe. Sento perfino con quanta intensità lo fa. Anche con chi non conosce, anche con chi è forestiero. Il petto non è schiacciato, ma accolto; le braccia non sono strette, ma protette; anche il capo, così pesante di questi tempi, trova sostegno e supporto su una spalla amica, per riposare un poco.

Me la immagino, la gente che s'abbraccia così, al di là della montagna, e penso quanto paradossale sia questo nostro presente. La natura ci ha giocato un brutto scherzo, tenendoci "occupati" giusto il tempo di "ripulirsi" quel tanto che basta... E noi? Costretti fra quattro mura, spaventati e impotenti, ribaltiamo le nostre priorità. Ogni mattina ci armiamo della giusta dose di buona volontà, apriamo l'armadio, ci travestiamo da "nonni" e, a nostro modo, combattiamo per la libertà.

Fino a ieri volevamo essere presidenti, attori, o cantanti. Volevamo stare da soli, al centro di un palco illuminati, noi da soli, sotto un riflettore, con tutto il mondo fuori a guardarci. Ecco, italiani: oggi il mondo è fuori, lontano, e sta a guardarci... Ma questo non ci fa poi così felici.

Quel mondo che bramavamo stesse al di là di uno schermo o di una transenna, però, un giorno noi lo riabbracceremo. Lo stringeremo forte, sussurrandogli col capo pesante che mai più lo lasceremo andare via. Ora, immaginate con me: lo faremo, lo riabbracceremo, il primo giorno, poi il secondo, poi il terzo... Poi il tempo passerà, la routine prenderà il sopravvento: i mercati si stabilizzeranno, l'ambizione tornerà a farsi sentire, l'invidia a prendersi gioco di noi, la competizione a darci la grinta necessaria. E quella cima della montagna... sarà di nuovo coperta dalla nebbia padana.

Sappiamo, in cuor nostro, che andrà così. È quel futuro che non ammettiamo, che celiamo dietro un "Andrà tutto bene", un futuro che in realtà abbiamo già capito che non ci piace, ma del quale forse non possiamo fare a meno. La preghiera che ha risuonato da una Roma vuota ma credente ci chiede di non essere prevedibili, almeno stavolta; ci supplica, in ginocchio, di stupire un futuro tristemente rassegnato; ci implora di continuare, finito tutto, a stringere quel mondo che, un giorno, vorrà semplicemente dimenticare.

Per non deluderla... Per non deluderci, ci basta non dimenticare la limpidezza dell'aria che ci ha permesso di raggiungere con gli occhi la cima di quella montagna. Quella cima è la nostra umanità, quella cima è il senso di comunità, quella cima è solidarietà.

È piangere per un abbraccio negato.
È ammirare un medico piuttosto che un teenager drogato.
È offrire una mano a chi la cerca.

È la "banalità" che tiene in piedi la vita che abbiamo vissuto... prima di tutto questo.

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Alberto Lupini


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