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Le separazioni forzate in ospedale Il ricovero spezza ogni contatto

In Terapia intensiva i pazienti sono tagliati fuori dal mondo. Si rapportano medici e infermieri blindati da maschere e caschi. Navigando nell’ignoto sanno inventare soluzioni. Spinti dalla passione .

di Walter Bruno
Direttore Comunicazione Humanitas
 
26 marzo 2020 | 11:48

Le separazioni forzate in ospedale Il ricovero spezza ogni contatto

In Terapia intensiva i pazienti sono tagliati fuori dal mondo. Si rapportano medici e infermieri blindati da maschere e caschi. Navigando nell’ignoto sanno inventare soluzioni. Spinti dalla passione .

di Walter Bruno
Direttore Comunicazione Humanitas
26 marzo 2020 | 11:48
 

Dietro l’angolo del Coronavirus si apre un mondo di separazioni forzate. I pazienti vivono una situazione di distacco forzato e assoluto dai propri cari. Una sofferenza in solitudine confortata spesso, per forza di causa maggiore, solo dagli sguardi del personale ospedaliero. Le emozioni e l’implicito diventano la forza motrice in un contesto senza più apparenti contatti. Ne riportiamo una testimonizna attraverso le parole di chi nell'ambiente ospedaliero si occupa proprio di comuincazione.

***

Uno degli aspetti più amari di questa epidemia è il profondo cambiamento delle modalità di comunicazione dentro e fuori dall’ospedale, a causa dell’isolamento cui sono sottoposti i pazienti. Come se il binario di una tratta vitale del Paese fosse stato bloccato per lavori in corso a tempo indeterminato. Il rischio di contagio e la distanza scavano nel profondo e rischiano di lacerare il tessuto relazionale e gli affetti di moltissime famiglie. Il ricovero di una persona colpita dal Coronavirus, soprattutto in condizioni gravi in Terapia intensiva ma anche in reparto, comporta spesso una drammatica interruzione della comunicazione e perfino del rapporto con la famiglia: non più contatti, gesti, sguardi. A volte, nemmeno la voce. Non sempre infatti le condizioni cliniche, o magari l’età del malato, permettono l’utilizzo di un banale cellulare per uno scambio vitale di informazioni e conforto reciproco.

La comunicazione interrotta Il ricovero spezza ogni contatto

Con i pazienti si riesce a comunicare a gesti

Si crea così un vuoto sconvolgente che, in casi estremi e in condizioni di vera medicina di guerra, come capitato nelle zone più colpite del Paese, porta a non sapere nulla del proprio caro, a volte fino al momento peggiore e tanto temuto: il decesso. Una morte senza un saluto. Senza un funerale. Una ferita profonda, difficilmente rimarginabile. Sono moltissimi i casi di pazienti anziani con importanti deficit cognitivi “sigillati” da settimane in ospedali e case di riposo per comprensibili motivi di sicurezza. Persone care con cui è praticamente impossibile comunicare se non in modo indiretto attraverso le parole di medici e infermieri che si prodigano in condizioni spesso estremamente difficili. Comunicazioni interrotte appunto, rituali infranti, ancestrali abitudini cancellate brutalmente a causa di un virus. Paradossalmente, in un’epoca caratterizzata dall’esplosione della comunicazione multicananale, sovrabbondante ed entropica.

Si tratta di una situazione estremamente difficile anche per medici e infermieri - lo posso assicurare vivendola ogni giorno in ospedale in presa diretta - che si trovano ad affrontare l’ignoto, come scrive in uno dei suoi bollettini Michele Lagioia, il direttore sanitario di Humanitas. A nessuno, prima, era capitato di dover curare così tanti pazienti in una condizione pressoché bellica, misteriosa e insidiosa per sviluppi epidemiologici e clinici. Con il comprensibile timore di essere contagiati e costretti, nella migliore delle ipotesi, a un riposo forzato. “Via via, abbiamo creato conoscenza, sapere. Abbiamo iniziato a imparare curando, nell’ambito non di un protocollo ma nella pratica clinica. Abbiamo ragionato in modo necessariamente innovativo affrontando l’onda dell’incognito e navigandola insieme. Credo che nessuno di noi sarà mai più come prima”, chiosa il dottor Lagioia.

Tutto questo si riflette anche nella comunicazione con i pazienti. Le mascherine, le bardature e i caschi protettivi rendono difficile la comunicazione empatica. Sorridere e trasmettere speranza al paziente intubato in Terapia intensiva è un’impresa. «Il malato non vede la nostra bocca ma solo i nostri occhi che sorridono. Fatica a sentire la nostra voce quando gli vogliamo raccontare che sta andando meglio, che la sua famiglia là fuori lo saluta con affetto e gli è vicina, lo incoraggia a tenere duro. Così abbiamo realizzato cartelli con disegni per mantenere un contatto in un momento così difficile: cerchiamo in ogni modo di fare da ponte, di portare le emozioni verso il paziente e ai suoi cari - mi racconta Maurizio Cecconi, a capo della Terapia intensiva di Humanitas - Ci prendiamo cura dei pazienti 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con una motivazione e una dedizione straordinaria. In Terapia intensiva, il personale sanitario è isolato dal mondo esterno quanto il paziente: questo crea una sorta di alleanza e una forte empatia».

E poi c’è il rituale della comunicazione dei medici con i familiari, che in tempi di isolamento e di non accesso ai reparti, ha cambiato modalità: una task force di medici in degenza e Pronto Soccorso con lo staff si dedica a questo compito con passione e dedizione: spiegano, rassicurano, calmano le paure. E, a volte, comunicano l’esito infausto. Via telefono purtroppo. Con il supporto, se necessario, di uno psicologo disponibile in modalità di teleconsulto.

Ci sono gli infermieri in corsia che, come il dio Ermes, portano messaggi come "pizzini", fotografie o disegni di figli e nipoti affidati loro dalle famiglie per i propri cari ricoverati. Oppure, aiutano il paziente anziano a fare una video chiamata. Momenti commoventi, ad alta intensità emotiva per tutti. Come nel caso di quelli che sono stati battezzati “angeli” delle nostre corsie: personale di staff che, volontariamente, entra nei reparti Covid con tablet e costruisce ponti digitali tra pazienti e famiglie.
Fantasia, passione e cuore. Tecnologia. Così si riallacciamo i fili sottili della comunicazione, alla ricerca di una disperata normalità.

Ps Dedico queste righe a mia madre e alla nostra comunicazione interrotta

Walter Bruno

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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