La Corte di giustizia dell’Ue ha messo un punto fermo su una questione che negli ultimi anni aveva acceso più di una discussione nel mondo degli spirits: un prodotto analcolico non può chiamarsi gin. La sentenza, pubblicata giovedì nella causa C-563/24, riguarda un contenzioso tedesco tra un’associazione per la tutela della concorrenza e la società PB Vi Goods, produttrice di una bevanda commercializzata come “Virgin Gin Alkoholfrei”.

La Corte Ue boccia il “gin” senza alcol
La Corte è partita da un dato molto semplice, che spesso passa in secondo piano nel dibattito sul boom dei distillati low e no alcol: il termine “gin” non è un’etichetta generica, ma una denominazione regolamentata a livello europeo. Per essere definito tale, un prodotto deve provenire dall’aromatizzazione di alcol etilico di origine agricola con bacche di ginepro e deve raggiungere almeno il 37,5% di alcol in volume. È una soglia chiara, fissata da una normativa che tutela i consumatori tanto quanto i produttori, e che non lascia spazio a interpretazioni elastiche.
Il nodo del caso stava tutto qui. PB Vi Goods sosteneva che l’indicazione “analcolico” chiarisse a sufficienza la natura del prodotto, evitando equivoci. I giudici lussemburghesi, però, non hanno condiviso questa lettura: chiamare “gin” una bevanda che non possiede le caratteristiche richieste dalla legge crea comunque un’asimmetria informativa, anche se il produttore aggiunge l’etichetta “senza alcol”. In altre parole, il marchio porta con sé un bagaglio di significati che non può essere replicato in assenza dell’elemento principale, cioè l’alcol ottenuto da materia prima agricola.
C’è poi un altro passaggio della sentenza che merita attenzione: secondo i giudici, il divieto non lede la libertà d’impresa prevista dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. L’azienda può continuare tranquillamente a vendere il proprio prodotto, purché rinunci a un nome che appartiene per legge a un’altra categoria merceologica.