Ogni anno il 16 ottobre si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione. Per il 2021, il tema scelto dalla Fao (l’organizzazione delle Nazioni Unite dedicata ad alimentazione e agricoltura) è quella della trasformazione dei sistemi agroalimentari. Ad oggi, infatti, più di 3 miliardi di persone non sono in grado di garantirsi una dieta sana (circa il 40% della popolazione mondiale). Uno scandalo se si pensa che il 14% del cibo a livello globale va perso a causa di carenze e difetti durante la produzione, l’immagazzinamento e il trasporto e il 17% viene sprecato dai consumatori finali. Per far fronte a tutto ciò, l’intero sistema di produzione e consumo del cibo è chiamato a evolvere lungo il sentiero della sostenibilità. Un percorso in cui, da anni, si è posta Wso (World Sustainability Organization), una Ong italiana conosciuta in tutto il mondo per la sua attività di certificazione delle aziende eco-sostenibili grazie ai programmi Friend of the Sea (per le specie ittiche) e Friend of the Earth (lanciato nel 2018 per le produzioni agroalimentari).
Un app per scoprire i "Ristoranti sostenibili"
Fra le ultime iniziative di Wso c’è il progetto “Ristoranti sostenibili” che permette al consumatore di individuare i ristoranti che servono pesce pescato o allevato in modo sostenibile e certificato grazie all’utilizzo di una pratica app. «Abbiamo adattato le regole di certificazione per proporre uno strumento in più ai ristoratori. Due le opzioni percorribili: la certificazione base che prevede che il ristorante utilizzi almeno una specie ittica certificata da noi; la certificazione gold che prevede un audit di verifica sui requisiti previsti dal nostro standard», spiega Paolo Bray, direttore di Wso. Lo standard Friend of the Sea prevede che un minimo del 90% dei prodotti ittici serviti (per peso o numero di specie) sia certificato. Di questo 90%, il 60% dev’essere certificato Friend of the Sea o Global Gap. In ogni caso, deve essere chiara e dettagliata l’indicazione di origine dei prodotti ittici attraverso un sistema di tracciabilità. In ultima istanza si valuta anche la responsabilità sociale dell’impresa ristorativa.

Paolo Bray, direttore di Wso
Il caso Temakinho, la prima catena food retail certificata Friend of the Sea
Ad oggi, sono 600 in tutto il mondo i ristoranti che possono vantare una certificazione Friend of the Sea, di cui 326 solo in Italia. Fra questi, la catena di ristoranti nippo-brasiliani Temakinho (15 locali in Italia, 4 all’estero). «Fin dalla sua apertura, Temakinho è stato concepito in maniera etica. E fra i tanti temi che abbiamo sviluppato c’è sicuramente quello della pesca sostenibile. Un aspetto che ha delle importanti ricadute commerciale. Nel 2016 abbiamo ottenuto la certificazione e nel giro di pochissimo tempo ci siamo accorti che il cliente finale era molto attento a questo aspetto, lo riteneva premiante tanto che abbiamo deciso di metterlo bene in evidenza nel menu dove compare l’indicazione di Temakinho come la prima catena food certificata da Wso. Oggi tutte le principali materie prime come salmone, tonno, ombrina, ricciola e gambero provengono da pesca o itticoltura sostenibile», ha spiegato Fabrizio Pisciotta, coo della catena nata a Milano nel 2012.

L'offerta food di Temakinho, catena di ristoranti nippo-brasiliani
La pandemia ha accelerato l'adozione delle certificazioni
Lontano dall’essere una semplice “etichetta” di merito, quindi, la certificazione Friend of the Sea riesce a fare breccia anche fra i clienti. Soprattutto in un momento in cui, dopo l’impatto della pandemia sulle abitudini di consumo, i clienti si sono fatti più sensibili alla qualità di quello che trovano nel piatto. «Il Covid ha aumentato sensibilmente le richieste di certificazione. Ristoranti e altri operatori vogliono ripartire con il piede giusto. E d’altronde, la sostenibilità si è imposta con la pandemia per restare un tema dominante del prossimo futuro. Tanto che non mi sorprenderei se un domani, così come avviene con i criteri ambientali minimi (Cam) che regolano la scelta delle materie prime nella ristorazione collettiva, si arrivasse a una norma di legge che preveda la certificazione dei prodotti utilizzati anche nella ristorazione», racconta Bray.
Bisogna convincere i ristoratori
Prima di tutto, però, c’è da convincere il ristoratore. «Sicuramente questo canale rispetto a quello della grande distribuzione organizzata, per esempio, ha delle complessità particolari. Se per i supermercati ci troviamo di fronte a realtà strutturate, nella ristorazione il panorama è più frammentato. Per questo il nostro sforzo è duplice: da un lato agire a livello capillare per raggiungere quanti più locali possibili; dall’altro coinvolgere gli operatori all’ingrosso e i distributori per lavorare sull’anello della catena precedente così da rendere più agevole il rifornimento di prodotti certificati», spiega Bray.
Paolo Bray: «Nessun rischio di aumento dei prezzi per i consumatori»
Sul fatto che un ampio ricorso alle certificazioni possa essere la scusa per ritoccare al rialzo i prezzi, Bray taglia corto: «Dico sempre che mentre il bio è visto e considerato come un plus, la sostenibilità è ormai diventata un must. Una sorta di dovere morale che il consumatore dà sempre più per assodato, soprattutto dopo la pandemia. Ricaricare tutto ciò sul prezzo finale, quindi, rischia di essere un boomerang. Anche a livello di marketing dove invece la leva della certificazione può essere uno strumento prezioso per far tornare i cliente a mangiare al ristorante».