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La più grande catena al mondo di ristoranti italiani è... tedesca!

Incapacità di stare assieme, di condividere i problemi, di sviluppare imprenditorialità, di affrontare i cambiamenti del mercato. L’assenza dello spirito di squadra ha contribuito alla crisi della ristorazione italiana. Ecco perché in Francia e in Germania i locali sono spesso più grandi e hanno più dipendenti

di Matteo Scibilia
Responsabile scientifico
07 febbraio 2015 | 10:54
La più grande catena al mondo 
di ristoranti italiani è... tedesca!
La più grande catena al mondo 
di ristoranti italiani è... tedesca!

La più grande catena al mondo di ristoranti italiani è... tedesca!

Incapacità di stare assieme, di condividere i problemi, di sviluppare imprenditorialità, di affrontare i cambiamenti del mercato. L’assenza dello spirito di squadra ha contribuito alla crisi della ristorazione italiana. Ecco perché in Francia e in Germania i locali sono spesso più grandi e hanno più dipendenti

di Matteo Scibilia
Responsabile scientifico
07 febbraio 2015 | 10:54
 

La più grande catena di ristoranti italiani al mondo è... tedesca. Questa affermazione o almeno questa considerazione, apparentemente provocatoria, non è mia o di Italia a Tavola. Anzi, giorni fa Aldo Cazzullo, noto editorialista del Corriere della sera, la riportava in un suo articolo, come cappello dello stesso in una seria analisi del declino imprenditoriale europeo e italiano. Naturalmente, un tale titolo non poteva passare inosservato ai miei occhi attenti sulle problematiche del settore. Spesso, quando studiamo e analizziamo la crisi del Turismo italiano, ivi compresa la Ristorazione, ci sembra di essere un po’ pesanti, troppo severi. Ristoranti costosi, alberghi costosi, cuochi ormai sganciati dalla realtà, in definitiva un circo che favoleggia se stesso, sul ponte di una nave che sta affondando. Troppo severi?



Qualche sera fa avevo al tavolo un giovane imprenditore cinese della regione di Shangai, è venuto a cena insieme ad alcuni clienti con l’intenzione di chiedermi un consiglio per un ristorante italiano di sua proprietà vicino appunto Shangai. Ora, non è importante la situazione in generale, ma vorrei che vi soffermaste su un dato: il ristorante lavora su due turni, dalle 10 alle 2 di notte, con all’incirca 35 dipendenti. Il “collega cinese” mi chiede: «Secondo lei, tutti e 35 i dipendenti mi costano circa 40mila euro l’anno, riusciamo ad inserire qualche cuoco bravo italiano?». Naturalmente ristorante con 200 coperti, super moderno e con attrezzature all’avanguardia. 40mila euro l’anno per 35 dipendenti, vi rendete conto? Qui da noi costa così solo un bravo cuoco. Il rapporto è di 1 a 35. Sì, avete letto bene. Come potremo affrontare una concorrenza di questo tipo?

Siamo in crisi, lo sappiamo, l’economia interna non cresce, i consumi sono tornati indietro di 25 anni, la disoccupazione cresce, i dati Istat sono impietosi, i ristoranti chiudono, gli alberghi soffrono, la grande distribuzione sopravvive in tanti casi più per operazioni finanziarie che per la vendita di scaffale, i piccoli artigiani e i commercianti chiudono, i nostri centri storici sono un susseguirsi di saracinesche chiuse, le banche, intese come attività, sono scomparse. In Cina 35 dipendenti costano 40mila euro e Aldo Cazzullo, giustamente, ci provoca dicendoci che la più grande catena di ristoranti italiani è in Germania. Sveglia, sottolinea ancora, sveglia Italia, sveglia turismo, svegliatevi imprenditori, conclude. Qualcosa veramente non torna...

Senza soffermarci su altre criticità del nostro Paese - il costo del lavoro, gli scandali, la corruzione, la criminalità, una formazione scolastica praticamente assente, il piagnisteo continuo, euro sì euro no, una politica sempre più lontana dai problemi reali della gente, ecc. - cercherò di capire insieme a voi perché la più grande catena di ristoranti italiani è in Germania.

Cominciamo a dire che non ci prendiamo tanto sul serio. Abbiamo la più grande ricchezza culturale e artistica del mondo, e nonostante ciò il Louvre da solo fa più visitatori di tutti i nostri musei messi insieme; Starbucks, la più grande catena di caffè nel mondo, ha il menu in italiano; Pizza Hut ci ha copiato la pizza; Ikea ha comprato i nostri artigiani del mobile in Brianza, e forse ci saranno molti altri esempi. Si stima in 60 miliardi la perdita del made in Italy del food, ma che non è vero made in Italy, cioè solo copie.

Un dato veramente preoccupante è per esempio l’alimentare italiano: nel 2013 ha esportato circa 30 miliardi di euro, l’alimentare tedesco circa 50 miliardi, ma cosa hanno i tedeschi più di noi nel food? Magari ci vendono cosce di prosciutto che di fatto diventano di Parma o di San Daniele? Perché non credo che vendano così tanti wurstel, senape e birra per un export così elevato.

Però, al di là di una buona ironia, per esempio ho scoperto che in Germania, ma anche in Francia, il numero dei ristoranti è circa la metà che da noi, quindi vuol dire che la ristorazione tedesca e francese, in un mercato superiore al nostro, ha una dimensione aziendale almeno doppia rispetto alle nostre realtà. Infatti la media di dipendenti in Italia è di 3,5 per ogni ristorante, in Germania e in Francia sono circa 8 dipendenti per azienda. Quindi imprese più grandi che da noi, quindi più fatturato, più capacita di investimenti.

Le liberalizzazioni imposte dagli ultimi governi e anche dalla Ue hanno dato accesso al mercato ad una serie impressionante di “nuovi imprenditori”, convinti che fare ristorazione fosse facile, mentre la categoria non ha fatto nulla o quasi per una difesa del settore. In molti casi anche le associazioni, nella speranza di acquisire nuovi soci, quindi nuove quote, hanno chiuso un occhio (e spesso tutti e due) credendo e facendo credere che il mercato avrebbe selezionato i migliori. In realtà sta succedendo il contrario: chi non ha professionalità resiste molto di più, in un mercato sempre più concorrenziale, anonimo e senza qualità.



Dall’altro lato la tradizionale incapacità italiana di fare rete, di fare sistema, che nella ristorazione si evidenzia con maggiore forza. In Italia ci sono oltre 100mila ristoranti, un numero impressionante di pizzerie, più tutto il resto dell’ospitalità e dei pubblici esercizi. Quali sono le associazioni professionali nazionali presenti nel nostro Paese? Prima considerazione: le associazioni di fatto sono lo specchio del Paese. Guardate:

  • Le Soste: potremmo definirlo il “Bilderberg” della ristorazione italiana, solo 65 soci in Italia, tutti stellati, molta selezione e una adesione su presentazione di altri soci;
  • Unione del Buon Ricordo: la più antica associazione, famosa per il piatto del Buon Ricordo, oggi sempre più in simbiosi con il Touring club italiano, circa 100 soci in Italia;
  • Unione italiana ristoratori (Uir): probabilmente la più numerosa, circa 200 associati, ultimamente si è data una nuova struttura con lo scopo anche di iniziare una attività sindacale e di servizi per gli associati, tra i più dinamici del settore.
  • Ordine ristoratore professionisti italiani (Orpi): circa 100 associati in Italia.
Poi vivacchiano piccole associazioni di tipo regionale. Se guardiamo a quelle nazionali arriviamo a circa 500 associati nell’insieme, ma il dato non è corretto, perché molti ristoranti sono presenti in più di una associazione. Se raffrontiamo questo dato con i Ristoranti presenti sulle maggiori guide (Michelin, l’Espresso, Gambero Rosso, Touring club, Golosario) sono circa 8mila. Anche qui, la maggior parte dei locali recensiti sono presenti in quasi tutte le guide. Ecco, capite che nel nostro Paese l’associazionismo non naviga in buone acque. Quindi, appena 4-500 ristoranti associati di qualità su una piramide di 8-10mila recensiti, su un totale di oltre 100mila in tutto il Paese.

Stare insieme non è lo sport preferito dai nostri ristoratori e cuochi, se non in eventi più o meno golosi, in feste più o meno goduriose. E infatti lo si nota anche nelle relazioni politiche e sindacali, praticamente assenti. Primeggia per fortuna soprattutto la Fipe, di Confcommercio, presidente Lino Stoppani, associazione sindacale forte di oltre 100mila pubblici esercizi associati, in cui in ogni caso primeggiano bar, pizzerie, locali da ballo e notturni rispetto ai ristoranti. Fipe che però, data l’importanza del food italiano, dovrebbe sforzarsi di riservare una maggiore attenzione al settore della ristorazione.

Incapacità di stare assieme, di condividere i problemi, di sviluppare imprenditorialità, di affrontare i cambiamenti del mercato. In una spirale che in realtà spinge molti ad un ribasso della qualità in una logica di minore offerta e prezzi più bassi, una “discountizzazione” di tutto il comparto. Senza contare i problemi dei ticket, della concorrenza sleale di agriturismi, dei b&b ed ora anche degli “home restaurant”, di cui parleremo nei prossimi numeri. Forse, per tanti dei motivi sopradescritti, la più grande associazione di ristoranti italiani è in Germania... Sveglia, svegliamoci!

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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