La narrativa dominante dice che «i giovani non vogliono più fare sacrifici». Poi incontri Martina Pochintesta, 28 anni, da Varzi, Oltrepò pavese, e capisci che la storia è un po’ più complessa. Lei, mentre molti coetanei puntano al lavoro che “lascia i weekend liberi”, entra in Cast - una delle scuole più impegnative del Paese - e si becca sette ore di cucina al giorno, più pulizie, più linee, più ritmi da brigata vera. E lo fa sorridendo.

Martina Pochintesta, studentessa 28enne del Corso di Alta Formazione in cucina di Cast
Non perché sia masochista, ma perché ha un’idea chiara in testa: la cucina non perdona chi la prende alla leggera. E soprattutto: senza tecnica, niente futuro. Sì, anche se sei cresciuta in un ristorante e hai una tradizione familiare dietro.
Le radici che non bastano più
In un’Italia in cui tanti giovani scappano dai weekend lavorati e dai ritmi della cucina, ce n’è una che fa il percorso opposto: vuole tornare a casa. Martina è cresciuta tra i tavoli del Buscone di Bosmenso, il ristorante di famiglia citato tra i Bib Gourmand della Michelin. Lì c’erano il nonno, poi la madre, le ricette “semplici” - nel senso più onesto del termine - e una cucina che non ha mai sentito il bisogno di inseguire mode. Solo che le radici, da sole, non bastano più. E Martina lo sa benissimo.

Martina viene da una famiglia di ristoratori, che gestiscono il Buscone a Bolmenso, sulle colline dell'Oltrepò pavese
Perché tornare a studiare quando potresti già lavorare
Dopo una laurea in Scienze della Ristorazione alla Statale di Milano, avrebbe potuto rientrare in cucina e prendere in mano l’attività di famiglia. Ma non le bastava. Troppo facile, troppo veloce. Troppo “automatico”.
Per questo oggi siede - anzi, lavora - tra i banchi di Cast, al Corso di Alta Formazione in cucina. Un percorso duro, pieno di manualità, tecnica e rigore. Ma per lei una rivelazione: «A 28 anni sono molto più consapevole di quello che ho e di quello che devo ancora apprendere». È qui che, dopo anni trascorsi a cucinare “per emulazione” di madre e nonna, capisce cosa significhi davvero costruirsi un mestiere.
La cucina vera non è Instagram: è manualità, metodo e rigore
Martina è la prima a dirlo: nel 2025 chiunque può cercare una ricetta online e replicarla. Ma fare cucina professionale è un’altra cosa. È materia prima, metodo, ripetizione, disciplina. È imparare perché le cose avvengono, non solo come, e imparare anche a farle proprie, a interpretarle.

Col maestro macellaio Italo Molari gli studenti hanno appreso tecniche di lavorazione di carne piemontese
Lei lo spiega con una chiarezza disarmante: online trovi un procedimento; in una scuola di formazione trovi un sapere. L'esperienza fa tanto ma è il sapere, dice, che «rende unici». Lo vedi quando racconta le ore passate a pulire verdure, sfilettare pesce, provare e riprovare gli stessi gesti. Lo vedi quando parla del modulo dedicato alle cucine regionali: dopo un mese di tecnica pura, finalmente i piatti iniziano a prendere forma. Vitello tonnato, guancia al Barolo. Ricette “banali”, forse, ma che solo chi ha costruito una base tecnica solida può permettersi davvero di interpretare.

Una formazione approfondita su tecniche e ingredienti è fondamentale anche per chi è cresciuto all‘interno di un ristorante, qui chef Alberto Quadrio spiega agli studenti
Il che, poi, riporta al motivo essenziale per cui un giovane, oltretutto proveniente da una famiglia di ristoratori, è bene che frequenti una scuola del genere: «Finalmente si vede l'inizio di un percorso concreto, perché stiamo mettendo in pratica quello che stiamo imparando. Io personalmente ci sono nata in una cucina, ma tutta la tecnica non mi è mai stata insegnata. Vedevo mia madre o mia nonna preparare ricette tradizionali e lavoravo per emulazione».
Il falso mito del talento: vince chi sa organizzarsi
Per Martina il vero nemico della ristorazione non è la fatica, ma l’illusione. L’illusione che basti il “talento”. Chi si approccia al mondo della ristorazione ha ben chiaro (o almeno, lo dovrebbe avere) quali siano i ritmi di un ristorante professionale. A Cast si lavora anche in questi termini, simulando in tutto e per tutto l'attività di un'attività ristorativa e Martina conosce bene i ritmi: «Facciamo lezione 7 ore al giorno ma alla fine ci fermiamo tutti a pulire, esattamente come si fa in un ristorante, e lo fa tutta la brigata».

In una scuola di formazione si simulano in tutto e per tutto le attività di una brigata in una cucina professionale
Martina spiega come il corso prepari alla gestione dei turni: «Quando andrò in un ristorante vero, io avrò una partita, mi occuperò per esempio dei primi, ma non potrò arrivare a mezzogiorno solo per cucinare. Dovrò essere super organizzata, per evitare il caos».
Passione e sacrifici dei giovani in cucina
Che si possa diventare chef senza passare per orari storti, linee da preparare alle 7 del mattino, turni infiniti e giorni di festa passati a lavorare mentre «gli altri si divertono, noi facciamo divertire loro». Il punto è proprio questo: per lei non è un problema. Anzi, è quasi il motore di tutto. «A me basta vedere qualcuno mangiare quello che ho preparato e apprezzarlo. Questo ripaga tutto».

Se guidati dalla passione, i giovani sono disposti anche a lavorare quando i propri coetanei si divertono
Nelle sue parole non c’è vittimismo, né eroismo: c’è lucidità. E un realismo che oggi manca, sia ai giovani sia al racconto collettivo della ristorazione italiana.
Giovani e ristorazione: la domanda che fa tremare le cucine
È quando il discorso scivola sul tema del personale che Martina si infiamma. Parla dei ragazzi che non accettano più i sacrifici, dei ristoranti che non trovano personale, come anche quello della sua famiglia, della comodità che sembra aver sostituito l’ambizione. E spara uno dei suoi colpi migliori: «Se nessuno vuole più, cosa facciamo? Chiudiamo tutti i ristoranti?». Domanda semplice. Risposta drammatica. Perché viene da una ragazza che quei sacrifici li conosce, li accetta e li considera parte integrante del mestiere.
La passione prima dei compromessi
Martina mette la passione al centro della carriera: «è ovvio che un lavoro come il nostro dovrebbe essere ben retribuito, perché è un lavoro difficile, con orari difficili e tutto quanto, però prima di tutto siamo noi stessi a dover dimostrare cosa sappiamo fare. E quando lo dimostriamo è giusto avere un riconoscimento».
E, in questo, la volontà di apprendere è determinante: «Nessuno nasce imparato, quindi, dal punto di vista del ristoratore, posso starti dietro volentieri per dieci anni a insegnarti tutto, però dall'altra parte devo vedere una persona che ha voglia di imparare, non lo fa solo per portarsi a casa uno stipendio».

In una scuola di alta formazione in cucina c‘è prima di tutto un insegnamento importante sulle tecniche, qui con chef Antonio Ghilardi
Cosa non accettare in cucina
E cosa, da giovane, non saresti mai disposta ad accettare? «Forse non essere riconosciuta a dovere. Ogni tanto bisogna anche sentirsi dire brava, ce l'hai fatta, meriti questo. Le critiche le accetto, basta che siano costruttive. Voglio comunque che mi dicano cosa ho fatto in modo scorretto, perché così posso imparare».
Lo stage come acceleratore o come perdita di tempo
Da qui, il ragionamento arriva agli stage, ed emerge un'idea molto più che precisa e consapevole: per lei uno stage in cucina che non insegna niente, anche se pagato bene, “non serve”. «Voglio imparare e avere a che fare con uno chef che mi spinge sempre al massimo». Ed è chiaro che sa già cosa cerca: non la vetrina, non le stelle, non l’iper-tecnicismo. Vuole un ristorante simile a quello che sogna.
Il ristorante che sogna: contemporaneo, territoriale, non “stellato”
Ed è qui che la storia diventa sorprendente. Nel 2025, mentre tanti sognano format uguali in tutta Italia, chef celebrities e locale “instagrammabile”, lei sceglie la strada più difficile: tornare al ristorante di famiglia. Non come ripiego. Non come trappola. Come atto di identità.

Nel percorso scuola lavoro, è fondamentale che uno chef offra tutta la sua esperienza, ma che gli allievi abbiano una reale voglia di imparare
Immagina un ristorante intimo, conviviale, legato a prodotti territorio, magari con un orto, e con una cucina casalinga ma costruita su tecnica e consapevolezza. Una realtà che non vuole essere stellata, ma solida. Più vicino alla montagna che ai riflettori. È una scelta controcorrente, quasi un gesto politico. «La mia realtà ideale è semplice e accogliente, casalinga ma al passo con il 2025. Deve essere chiaro che parlo di qualcosa di contemporaneo, legato anche alla montagna».
Perché nel 2025 un cuoco deve anche saper fare un business plan
E, oltretutto, non basta nemmeno più saper solo cucinare: «Da gennaio affronteremo tutta la parte di food cost, che è molto interessante. Il ruolo del cuoco non si limita alla cucina: bisogna essere consapevoli di tante altre cose».
E gli esempi non mancano: come fare un ordine, quanto materiale prendere, come conservarlo, calcolare se le quantità bastano per la settimana. È fondamentale capire quanto costa un piatto e gestire tutte le materie prime con criterio. Oggi questo non è un argomento trascurabile. Martina Spiega che un cuoco non può più limitarsi alla cucina: se vuoi aprire un ristorante devi sapere tutto, dal piatto al business plan. È una visione pragmatica, moderna, adulta.
Passione e competenza: la chiave per una carriera nella ristorazione
Martina non è l’eccezione romantica: è la dimostrazione che chi vuole costruirsi un futuro nella ristorazione oggi deve scegliere la strada più difficile, non la scorciatoia. Perché la cucina italiana potrà anche essere patrimonio Unesco, ma il suo domani dipende da chi accetta di sporcarsi le mani, studiare, sbagliare e rialzarsi. E se c’è una cosa che la storia di Martina insegna è questa: la passione non basta; la competenza sì.