In un’Italia dove basta sbagliare la pancetta per scatenare una guerra civile digitale, Valerio Braschi continua a fare di testa sua. Distilla carbonare, infila lasagne nei tubetti, liofilizza tutto ciò che gli capita a tiro, e soprattutto non cucina per Instagram. «I piatti virali sono stronzate», dice serafico. A Milano, nel suo The View affacciato sul Duomo, ha costruito un laboratorio dove il gusto resta sovrano e il divertimento è il vero motore creativo. Altro che provocazioni e show: per Braschi la cucina è un gioco serio, fatto di tecnica, errori quotidiani e un menu degustazione che ora vuole unire popoli lontanissimi. Un approccio più maturo, più libero, e soprattutto impermeabile alle mode del web.

Valerio Braschi ora è lo chef del The View, in Piazza Duomo a Milano
A soli 20 anni, Braschi ha conquistato MasterChef Italia, per essere poi premiato come “Giovane chef dell’anno” dall’Espresso e celebrato dal Gambero Rosso, con riconoscimenti anche nella Guida Michelin 2022. Per Braschi, cucinare non è marketing: è passione pura, curiosità e divertimento. La sua cucina parla, coinvolge e diverte, facendo sentire ogni cliente protagonista di un piccolo grande spettacolo gastronomico.
Creatività in cucina: per Valerio Braschi tutto nasce dal divertimento
Per Braschi, la spinta iniziale non è mai la provocazione, anche se molti lo percepiscono come uno chef che ama “sconfinare”. Lui ribalta il cliché senza esitazioni: «Nasce sempre per divertimento. Non vedo la cucina come provocazione ai clienti. Per me è gioco, è divertimento, è provare cose nuove, è lavoro, per come vedo io vedo la cucina, cose che mi diverto a fare».

Ramen di Polpo, miso e aneto
Una posizione che lo colloca fuori dalla narrazione dello chef “genio ribelle”: non cerca lo scandalo, non cerca la competizione, ma difende una cucina creativa come spazio libero e personale. In un panorama gastronomico spesso schiacciato dall’ansia di stupire, questa scelta diventa già una forma di rottura.
Lasagna in tubetto, carbonara liquida: perché gioca coi simboli
Negli anni Braschi si è fatto notare per ricette virali - a volte amatissime, altre volte bersaglio della rete - come la lasagna in tubetto o la carbonara in provetta. Ma lui taglia corto: non sono provocazioni studiate, sono atti d’amore verso la tradizione italiana.
«Li scelgo perché sono capostipiti della cucina italiana - ammette lo chef - ma soprattutto perché sono i miei piatti preferiti. La lasagna è il mio piatto del cuore, la carbonara uno dei miei primi preferiti. Interpreto soprattutto i piatti che amo io, che faccio a casa, che si cucinano nella mia famiglia».

Lasagna in provetta spremuta su di uno spazzolino di pasta all'uovo
In un’Italia che difende la tradizione come un territorio sacro, Braschi osa toccare i simboli gastronomici proprio perché li rispetta. Il risultato è un cortocircuito: la critica gli dà del dissacratore, lui si vede come un tradizionalista sperimentale.
La filosofia di Braschi: prima il gusto, poi l’idea
In un percorso creativo così libero, esiste però una regola ferrea. Braschi lo ripete più volte: «Il gusto deve essere buono. Se non lo è, si butta tutto. È il gusto che comanda oltre all’estetica e alle idee, oltre tutto». Perchè la cucina resta, prima di tutto, un’esperienza di sapore. E aggiunge: «Se un cliente mi dice che un un piatto è figo, se è anche una buona idea, ma non lo rimangerebbe, allora non ha senso farlo. Io voglio che i clienti tornino per mangiarlo di nuovo. Solo così sto migliorando. Possiamo essere creativi e innovativi, ma dobbiamo soddisfare il palato delle persone». Una posizione che lo mette in rotta di collisione con chi usa la cucina come esercizio concettuale.

Per Valerio Braschi il gusto resta sovrano
Errori, scienza e test: il “metodo” di una cucina in evoluzione
Gli errori fanno parte del processo. «Succede sempre. Non una volta all’anno, ma tutti i giorni. Provi una cosa: se è buona bene, se non lo è, si cambia rotta». Ricorda anche un episodio specifico: «Abbiamo provato a distillare le cozze per fare una pasta… ed è venuta una schifezza. Le cozze che sono avanzate le abbiamo mangiate così, il resto era inutilizzabile».

Per Braschi una buona idea passa sicuramente da molti errori
E sulla squadra è netto: «Mi circondo di persone che hanno fame di crescere. Quando si parla di giovani che non hanno voglia, io non credo sia così, penso che manchi la fame di arrivare. È questo che ti fa fare le cose migliori».
La guerra ai piatti virali e il disinteresse per i social
Qui Braschi è ancora più esplicito e si candida, suo malgrado, a voce critica del sistema: «I piatti virali sono tutte stronzate, nella maniera più assoluta. Io faccio il mio lavoro e la mia cucina».
Non è snobismo: è una presa di posizione contro un modello che trasforma gli chef in produttori di contenuti. «Dei food influencer non me ne frega niente».
In un momento storico in cui la visibilità sembra la valuta principale della ristorazione, Braschi sceglie di non giocare la partita. Ed è proprio questo che lo rende rilevante oggi: va contro la corrente che domina la scena gastronomica. «Uso i social, guardo video, anche di ricette, prima di addormentarmi, quelle cose lì. Ma non guardo i piatti virali».
Il nuovo menu, un manifesto dell’unione dei popoli
Quando parla del futuro, la sua visione è più geopolitica che gastronomica: «Sarà un manifesto di unione dei popoli». Cina, Malesia, Italia, Balcani: un melting pot che oggi nessuno chef italiano di fine dining sta proponendo con la stessa radicalità. «Perché al momento voglio spingere tanto su ciò che per me è la cucina, che è proprio unione dei popoli, è ciò in cui credo. Ora sto facendo davvero un menu che rappresenta questa visione».
E, ancora una volta, prende le distanze dalla “linea estetica dominante”: «Sono piatti bellissimi, ma non mi rappresentano.Devo fare ciò che credo. Per me la cucina è unione, per questo faccio piatti di tutto il mondo. So che magari in Italia questo è poco capito, però io sono così».

La Parmigiana Liquida
Per ora, tutta la brigata è concentrata su questo menu: «Su altre novità non stiamo lavorando perché ci stiamo concentrando su questi nuovi piatti che stiamo per proporre. Appena avremo qualche nuova idea, su qualche piatto particolare, la proveremo immediatamente. Appena abbiamo anche solo micro-idea, si comincia subito, a tenerle lì dopo un po’ ammuffiscono e non va bene».
Piatti virali vs stile raffinato
Su ciò che diventa virale sui social non mostra alcuna indulgenza: «Per essere virale, i piatti sono quelli che colpiscono la massa». E lo spiega con brutalità: basta “toccare” un simbolo italiano. «Se prendo una carbonara e in un video ci butto dentro la pancetta, di proposito, il video diventa virale».
La sua distinzione è radicale: il virale appartiene all’anticucina, mentre il fine dining appartiene al mestiere. Il suo modello è l’esatto opposto del marketing gastronomico contemporaneo. In un momento in cui tanti chef corteggiano i social, Braschi prende la strada meno conveniente - e più identitaria. «Ad esempio, ora metteremo un piatto, una zuppa malese con pollo, che si chiama Laksa. All’italiano medio, sui social, non interesserà».
Tecniche scientifiche: dalla carbonara liquida alla liofilizzazione
Braschi racconta alcune delle sue tecniche più avanzate: «Abbiamo utilizzato la scienza, la chimica. Per fare la carbonara liquida abbiamo impiegato un distillatore professionale. Dietro tutto quello che facciamo c’è tecnica. Stiamo sperimentando la liofilizzazione, è normale che ci sia tecnica, però non sono piatti creati per provocare».

La celebre Carbonara distillata di Valerio Braschi
La scienza non è show, ma strumento per esaltare il gusto: «Non farò mai un piatto provocatorio solo per il gusto di esserlo, detesto provocazioni fatte per marketing», precisa lo chef.
L’esperienza del cliente come misura del successo
In un contesto in cui gli chef vedono la sala come un palco, Braschi mostra invece una vulnerabilità rara:: «Quando esco dal cliente mi chiedo sempre cosa non è andato. È tramite le critiche che cresco e miglioro. Il cliente deve uscire soddisfatto e, se ha qualche appunto, io devo sempre parlarne. È un motivo di confronto importante. Poi io sono di natura anche molto timido, ogni tanto mi prende male, ma è un passaggio che sento di dover fare se voglio migliorare».
Roma, Milano e MasterChef: cosa ha davvero imparato
Il trasferimento da Roma a Milano, prima al Vibe, esperienza non chiusasi benissimo, e ora da quasi un anno e mezzo al The View, in una cornice unica come piazza Duomo, rappresenta una sfida per qualsiasi chef: «Roma è stata l’esperienza più bella della mia vita. Tra Roma e Milano sinceramente non ho visto tutta questa gran differenza, molti mi dicevano che a Roma è più difficile proporre un’idea di fine dining ma non è vero, ho lavorato benissimo. Magari a Milano le persone tendono con più facilità a spendere certe cifre, ma Roma sta facendo grossi passi avanti. A Roma si può ancora mangiare tradizionale e spendere poco, a Milano 15 euro non ti compri nemmeno un’insalata al bar. Sono delle spese diverse».
E non si può non tornare a MasterChef (al via il prossimo 11 dicembre con la nuova edizione). Con Valerio proviamo a riflettere su quella esperienza e su cosa ha significato per la sua carriera di chef: «Mi ha alimentato ancora di più a provare cose nuove e a seguire la mia passione per la cucina. Non dà un metodo di lavoro, perché è una gara singola, non impari a cucinare. Impari a capire te stesso, il tuo livello e i tuoi limiti, perché ti trovi in situazioni di stress».

Per Braschi, vincitore di MasterChef 6, ora il focus del programma si è spostato dalla cucina al mero show televisivo
Sull’evoluzione del programma, Braschi osserva: «MasterChef si è spostato più sul lato dello show televisivo. Ora la cucina è diventata secondaria. Ci sono tanti momenti divertenti, social, siparietti. Loro lo fanno perché sanno che il pubblico vuole questo, e alla fine è giusto così». Un giudizio raro da parte di un vincitore, ed è proprio questa libertà di parola che lo tiene attuale.
Giovani, brigata e futuro del fine dining: la visione di Braschi
Sui giovani chef non fa sconti, ma non cade nei soliti cliché: «Deve essere una persona umile, che sa valutare i rischi e usare il 100% della materia prima. Ad esempio, con i limoni: se uso solo il succo, il restante 90% va sprecato, ma quel 90% l’ho pagato, e devo imparare a usarlo tutto, perché sono soldi. E poi bisogna saper generare una brigata motivata, con un obiettivo comune».
Lo chef romagnolo parlando della direzione della ristorazione italiana: «Molti dicono che il fine dining sta morendo. Io credo che il fine dining c’è, è vivo e sarà sempre vivo. Si sta cercando di tornare alle nostre basi culinarie con i gusti, senza rinunciare alla creatività e all’innovazione, cxhe non devono mancare. Allo stesso tempo, non devono mancare le osterie e le trattorie, che sono un bene culturale italiano da proteggere, perché continuano a portare avanti la tradizione. Sono due cose che vanno sempre insieme».
Lo stile unico di Braschi tra gusto e passione
Braschi non vuole essere un provocatore, ma finisce per esserlo proprio perché non ci prova. Va dritto al gusto, difende la libertà creativa, rifiuta il marketing camuffato da cucina e non rincorre la viralità. Distilla, sperimenta, sbaglia, ricomincia. E soprattutto ascolta i clienti, perché alla fine il metro di tutto resta quello: tornare a mangiare un piatto non perché è “figo”, ma perché è buono. Una lezione semplice che, paradossalmente, oggi sembra radicale.
Piazza Duomo 21 20121 Milano (Mi)