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Il riscatto del burro in cucina Fondamentale nella Dieta mediterranea

Ritorna in tavola un alimento prezioso per l’organismo: il burro. Le ultime ricerche confermano che è sano, naturale, buonissimo, digeribile e soprattutto una componente fondamentale nella Dieta mediterranea. Una porzione di 10 g di burro fornisce meno calorie rispetto alla stessa dose di olio extravergine di oliva

 
16 maggio 2015 | 11:11

Il riscatto del burro in cucina Fondamentale nella Dieta mediterranea

Ritorna in tavola un alimento prezioso per l’organismo: il burro. Le ultime ricerche confermano che è sano, naturale, buonissimo, digeribile e soprattutto una componente fondamentale nella Dieta mediterranea. Una porzione di 10 g di burro fornisce meno calorie rispetto alla stessa dose di olio extravergine di oliva

16 maggio 2015 | 11:11
 

Il burro? Un alimento prezioso per l’organismo. Digeribile, utile per la crescita, ma soprattutto buonissimo, fondamentale nella dieta mediterranea. È il parere di nutrizionisti, studiosi, esperti di cucina e chef stellati che, anche sulla scorta degli studi apparsi negli ultimi mesi sulle più autorevoli testate internazionali, nell’anno di Expo 2015 ne decretano la definitiva riabilitazione dopo mezzo secolo di considerazioni infondate, pregiudizi e luoghi comuni.



«Il burro - spiega Pierluigi Rossi, medico specialista in Scienza dell’alimentazione - è più che mai parte della dieta mediterranea. Per comprendere la sua anima nutrizionale occorre conoscere il suo significato alimentare: ottenuto dal latte di vacca, porta nel nome stesso la sua origine mediterranea: deriva infatti dal greco βουτυρος, che significa formaggio bovino. Il burro è un’emulsione di acqua e molecole lipidiche. È un alimento naturale il cui carattere nutrizionale lo rende ben tollerato anche da chi soffre di allergie alimentari».

Ma le qualità del burro sono molteplici. «È un alimento ben digeribile - prosegue Rossi - con pochissimo lattosio e ricco di vitamine importanti, (A, E, K). Tra l’altro, è uno dei pochi alimenti a contenere la vitamina D, oggi definita un ormone per la sua azione uguale agli ormoni steroidei. La vitamina-ormone D agisce sull’integrità delle ossa, e la più innovativa ricerca scientifica ha evidenziato il suo ruolo guida sul sistema immunitario».

«Gli acidi grassi (tra cui omega 3 e Omega 6) contenuti nel burro miscelati fra loro - conclude Rossi - contribuiscono alla crescita e al rinnovo continuo delle cellule degli organismi viventi. Il burro è quindi un alimento vitale, adatto a un organismo in rapida crescita, come un bambino o un adolescente, oltre a fornire un aiuto indispensabile ai muscoli in chi svolge attività fisica. Gli acidi grassi saturi sono utilizzati per produrre energia e mantenere costante la temperatura corporea».

Dal punto di vista nutrizionale, una porzione di 10 grammi di burro fornisce meno calorie rispetto alla stessa dose di olio extra vergine di oliva: 75 calorie il burro, 90 calorie olio. Il motivo? Il burro, essendo un’emulsione, contiene circa il 15% di acqua, mentre nell’olio non c’è acqua, ma solo grassi.

In quest’ultimo anno si è assistito a un vero e proprio processo di revisionismo nei confronti del burro. Merito di una serie di studi scientifici pubblicati negli Stati Uniti a partire dal 2014, che hanno mostrato le scarse basi della cosiddetta teoria lipidica che ha portato alla demonizzazione dei grassi tradizionali causa a suo dire di ogni malanno, dall’obesità infantile all’infarto alle malattie cardio-vascolari.



Il punto di svolta è stata la pubblicazione e il successo di “The Big Fat Surprise”, il libro con cui la nutrizionista Nina Teicholz, attraverso un lavoro durato 9 anni, ha mostrato come a partire dall’inizio degli anni ’60 la comunità scientifica americana abbia demonizzato i grassi animali e di come questa visione sia stata utilizzata dalla grande industria americana del food per promuovere il ricorso a grassi di origine vegetale. Un clamore che ha raggiunto il suo apice con la copertina del settimanale Time, che nel giugno dello scorso anno titolava Eat Butter, accompagnandolo da un sottotitolo eloquente: gli scienziati avevano etichettato il burro come nemico. Perché si sbagliavano.

«Il latte - spiega Roberto Brazzale, a capo dell’azienda casearia più antica d’Italia - è una delle più meravigliose e complesse opere della natura. Fondamentale alla vita. Il burro ne è la parte più nobile, nella quale risiede tutto il suo potere energetico, gli aromi, i sapori. Eppure, per decenni questo prezioso alimento è stato vittima di assurdi pregiudizi e luoghi comuni che, oggi scopriamo grazie alla scienza, non avevano alcun fondamento. Vogliamo festeggiare questa liberazione, questa riconquista di un alimento straordinario per il piacere della tavola e per la nostra salute, ritrovando il gusto di goderne pienamente».

Che il burro sia tornato ad essere parte integrante della cucina italiana e internazionale non è certo una scoperta degli ultimi mesi. Si pensi al recente “affaire” del pesto alla genovese sollevato da Davide Oldani che ha spiegato come la preparazione del pesto necessiti dell’uso del burro. Una consuetudine che è andata perdendosi ma che trova ampio riscontro in gran parte delle ricette tradizionali del pesto.

La scomparsa di questa sorta di “complesso del burro” la si trova, ad esempio, nell’ingresso trionfale nell’alta cucina della cotoletta alla milanese che trova nella versione di Davide Scabin la sua espressione più riuscita. Scabin non fa mistero che per friggere la sua cotoletta di filetto di fassona necessita di 150/200 etti di burro a porzione. Lo stesso accade al sud, si pensi all’ampio utilizzo di burro che non nasconde di fare nella sua cucina la napoletana Marianna Vitale, eletta dalla Guida dell’Espresso cuoca dell’anno 2015.

Come il burro è diventato il nemico pubblico n.1
Secondo Nina Teicholz, il momento in cui il burro divenne il nemico pubblico n°1 della nostra tavola può esser fatto risalire al 13 gennaio del 1961, quando Ancel Keys, dopo aver inventato le razioni K per i soldati della Seconda Guerra Mondiale, comparve sulla copertina del Time Magazine. Dalla fine del conflitto infatti, Keys si era occupato di portare avanti uno studio (il Seven Countries Study, che prosegue ancora oggi) che analizzava il rapporto tra alimentazione e malattie cardio-vascolari (la principale causa di morte in tutti i paesi dell’Occidente). Nelle sue conclusioni Keys individuava nei grassi le responsabilità maggiori, andando poi a scoprire e descrivere gli effetti di questi ultimi sul colesterolo.

Il problema fu quel che i media trasmisero, come spesso accade, semplificando: il messaggio doveva essere semplice e chiaro: i grassi fanno male. Di più: i grassi animali sono veleno. Il risultato fu il programma per la riduzione del colesterolo (Cholesterol Education Program), lanciato poi negli anni Ottanta, con un claim molto simile a quello di un noto marchio di abbigliamento sportivo: "Just cut the fat”. Tagliate i grassi.

Come raccontato dalla Teicholz, e poi dal Time, dopo decenni di guerra ai grassi non sembra che l’occidente abbia sconfitto l’obesità. Non solo: le malattie cardiovascolari non sono in regresso e le persone non hanno fatto pace con l’idea di “mettersi a dieta”. Il fatto è che i prodotti “fat free”, o come si dice in Italia “light”, spesso supplivano allo scarso contenuto di grassi con un maggiore contenuto di zuccheri o carboidrati, che vengono digeriti molto in fretta causando un immediato picco dell’insulina.

L’insulina dice al nostro corpo di immagazzinare grassi, causa la caduta dello zucchero nel sangue e ci fa sentire affamati. Un vero e proprio circolo vizioso, insomma. Il fatto è che la parola grassi, ha spiegato Bryan Walsh nel suo dossier su Time Magazine, suona come cattiva e la si associa ormai a qualcosa di terribile. Eliminare i cibi che li contengono, cibi che da sempre fanno parte della dieta quotidiana degli esseri umani, ha fatto molto più male che bene.



Nel 2010, l’American Journal for Clinical Nutrition pubblicava un importante studio sui grassi, concludendo che “non vi sono evidenze scientifiche convincenti sul fatto che i grassi saturi causino problemi cardiaci. Né che il consumo di grassi saturi causi l’obesità”. Secondo il Guardian, a trarre il maggior giovamento dalla guerra ai "sat fat”, ai grassi saturi, sono stati i cibi prodotti industrialmente: “se devi vendere spazzatura, assicurati che sia spazzatura light”, dice senza mezzi termini il quotidiano inglese.

Insomma non è il grasso in sé, ma il modo in cui il singolo corpo, con tutte le caratteristiche uniche che lo contraddistinguono dovute al suo dna, assimila i cibi, e le molecole di cui questi si compongono, che determina le conseguenze positive o negative sull’organismo e sulla salute. I riflessi di questa demonizzazione del burro in Europa e in Italia hanno poi avuto risultati ancora più estremi, perché si potevano accompagnare a una parallela celebrazione dell’olio extravergine d’oliva, una delle glorie della produzione agricola italiana e mediterranea.

Dal punto di vista linguistico e semantico, quest’ultimo non era trattato come “grasso”, ma innanzitutto come “condimento”, mentre attraverso una sapiente attività di comunicazione, sviluppata anche grazie al pregevole sforzo del Consorzio, l’olio di oliva italiano diventava oggetto di “campagne simpatia”, e di una grande promozione del consumo. Contemporaneamente, il burro si trasformava nel grasso negletto, confinato al necessario impiego in pasticceria, utilizzato talvolta di nascosto, o in questi ultimi anni vestito con formule politically correct quale, ad esempio, il burro chiarificato.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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