Che le cosiddette merendine non siano consigliate per diete sane ed equilibrate è vero, ma è anche vero che l’Italia rispetto ad altri Paesi del mondo è decisamente più attenta a grassi e zuccheri. Lo conferma uno studio Aidepi che paragona le merendine italiane da quelle americane e britanniche.
Tutelare il consumatore italiano, disorientato spesso da allarmi lanciati negli Usa o nel Regno Unito riguardo l’assunzione di troppi grassi o zuccheri dagli snack, tradotti in modo improprio con il termine “merendine”.
Una confusione che non deve tracimare in una demonizzazione dei nostri prodotti, diversi dal punto di vista dell’apporto nutrizionale e del contesto sociale e dietetico in cui vengono consumati. Per questo
Aidepi (Associazione industriali del dolce e della pasta italiani) ha commissionato il primo studio comparativo che ha analizzato lo scenario della merenda confezionata di Usa, Inghilterra e Italia confrontando le caratteristiche nutrizionali di 10 merendine tra le più significative del mercato delle Gdo locali.
La ricerca è stata realizzata dalla Fondazione italiana per l’educazione alimentare (Foodedu), presieduta dalla nutrizionista Evelina Flachi che l’ha presentata a Milano il 2 ottobre presso la Fondazione Feltrinelli. I risultati sono stati analizzati e commentati anche da Mario Piccialuti, direttore Aidepi e Giuseppe Morino, specialista in Pediatria e Scienza dell’alimentazione presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma.
La merendina italiana, è emerso dall’indagine, ha in media una porzione di poco superiore ai 34 grammi. Contiene 5,7 grammi di grassi, dei quali solo 2,1 saturi, e 9 di zuccheri, per un contenuto calorico a porzione pari a 136 kilocalorie. Il contenuto calorico per porzione rappresenta inoltre una percentuale tra il 5 e il 10% del fabbisogno calorico giornaliero della merenda dei bambini dai 7 ai 12 anni, dato in linea con le raccomandazioni fornite dalla Società italiana per la nutrizione umana.
Al confronto, una merendina inglese - anche in virtù di un peso maggiorato della porzione del 94%, da 34 grammi a 66 grammi - comporta l’assunzione di quasi 12 grammi di grassi (il doppio rispetto all’Italia), dei quali 5,2 saturi, ma soprattutto 19 grammi di zuccheri (anche in questo caso il doppio) e ben 251 kilocalorie. Peggiore la situazione negli Usa. Qui la porzione è super, 81 grammi, e ne comporta 16 di grassi, dei quali quasi 6,6 saturi (3 volte le merendine italiane), circa 26 di zuccheri e 344 kilocalorie (2 volte e mezzo più delle nostre merendine).
«La porzionatura è il nostro cavallo di battaglia - ha sottolineato
Evelina Flachi - la merendina confezionata assicura già la grammatura ottimale e la corretta percentuale di nutrienti. Va inoltre ricordato che la merendina è solo italiana e rientra nella famiglia della dieta mediterranea. Negli altri casi si tratta di puri prodotti dolciari».

Il vantaggio in termini nutrizionali delle merendine italiane rispetto a quelle inglesi e statunitensi è frutto anche del contributo che le aziende hanno saputo dare per rendere i prodotti da forno sempre migliori. Negli ultimi 10 anni l’industria italiana, grazie a un impegno “volontario” condiviso con il ministero della Salute, ha ridotto nelle merendine la presenza di zuccheri (-30%), grassi saturi (-20%) e contenuto calorico (-21%), eliminando completamente gli acidi grassi trans e superando addirittura gli obiettivi prefissati con il ministero. Un risultato reso possibile anche grazie all’innovazione di prodotto in cui l’industria delle merendine investe circa il 2% del suo fatturato (20 milioni di euro) e che nell’ultimo anno ha visto crescere i prodotti delle linee benessere (senza grassi e zuccheri) di circa il 9%.
«Partendo dal presupposto che in genere non si producono più torte in casa - ha puntualizzato
Mario Piccialuti - le aziende fanno innovazione nel solco della tradizione producendo prodotti porzionati salubri, sicuri e che soddisfano il gusto. Dobbiamo promuovere i valori della merendina italiana, frutto anche dell’importante rapporto osmotico tra industria, scienza e istituzioni. Diventa quindi fondamentale promuovere una capillare educazione alimentare per favorire un consumo consapevole, organizzato e controllato».
In Italia si consumano circa 2 merendine a settimana, nel 61% dei casi da parte di persone adulte (21 milioni d’italiani). E solo nel 22% dei casi da bambini e ragazzi di età 1-10 anni. Le merendine più amate dagli adulti sono le stesse che mangiavano da piccoli, a confermare un forte legame emozionale verso il prodotto: in testa quella tipo brioche seguita da quella a base di pasta frolla, tipo plumcake e a base di pan di spagna.
La merendina si colloca nella “top five” degli alimenti che i genitori danno ai propri figli, preceduta da frutta, in testa con il 51%, yogurt (42%), snack salato (28%) e panino (24%). Va anche detto che oggi 4 italiani (adulti) su 10 saltano la merenda (sia lo spuntino di metà mattino che quello di metà pomeriggio). Tra quelli che la fanno, pari a circa 30 milioni di persone, quasi la metà sceglie sempre e solo il dolce che è connaturato nella nostra percezione di gratificazione. Riguardo la merenda di bambini e ragazzi, le merendine rappresentano la terza categoria di prodotti (23,2%) dopo frutta e yogurt (36,4%) e gelato (25,3%).
Le marcate differenze evidenziate tra merendine italiane e straniere dalla ricerca riflettono anche una diversa cultura dell’alimentazione dei tre Paesi presi in esame. Un bambino italiano di 12 anni consuma il 40% in meno di zuccheri di un bambino americano della stessa età e quasi il 30% in meno di uno inglese. E se il livello di sovrappeso è simile tra i tre Paesi (circa un terzo della popolazione), gli obesi in Italia sono infatti quasi 3 volte meno che in Gran Bretagna e circa 4 rispetto agli Stati Uniti.
«L’informazione corretta e il controllo - ha ammonito il pediatra
Giuseppe Morino - non devono mai raggiungere livelli di guardia. Lo standard ottimale di benessere di un bambino va garantito da un’ideale task force composta da famiglia, pediatra, scuola, media e industria. Un percorso articolato che prevede diverse fasi. A partire dalla riappropriazione dell’abitudine familiare a una prima colazione completa per approdare alla trasformazione del pasto scolastico in un momento di educazione alimentare. Fondamentale poi coinvolgere le istituzioni nel reperire spazi e opportunità per fare movimento fisico spontaneo e organizzato. Importante anche la collaborazione dell’industria nella definizione di etichette sempre più chiare e complete a cui deve rispondere l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei consumatori sulla qualità del cibo, senza una demonizzazione preconcetta di alcun alimento».
Per informazioni:
www.aidepi.it